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I temi più caldi all’avvio delle campagne presidenziali

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Il primo appuntamento elettorale delle primarie americane è il caucus dell’Iowa, fissato per il 1° febbraio 2016. Tuttavia, grazie ai dibattiti televisivi, la campagna elettorale è ormai già entrata nel vivo. Molta dell’attenzione mediatica è concentrata sui sondaggi, sull’incerta lotta per la nomination repubblicana (con una schiera ancora lunga di pretendenti) e inizialmente sui due personaggi dalla personalità più spiccata, cioè Hillary Clinton e Donald Trump (nonostante gli evidenti limiti della sua candidatura). Ma quali sono i contenuti di questa campagna elettorale e i temi che più interessano gli elettori?

Secondo l’istituto di ricerca Gallup, che da decenni monitora l’opinione pubblica americana, anche in questa elezione il tema più importante sarà l’economia, seguita dal “modo di operare del governo federale”, dalle politiche sanitarie, dal terrorismo e dalla politica estera.

Tali rilevazioni hanno sempre sollevato obiezioni metodologiche: il terrorismo non è forse anch’esso parte della politica estera? L’economia non dovrebbe essere “spacchettata” in sotto-temi più specifici quali “politiche fiscali”, “pareggio di bilancio” e così via? Dubbi leciti, va però tenuto conto che si tratta di indagini che sono state avviate sin dalle elezioni del 1948 e che quindi offrono la possibilità di analisi comparate. Secondo queste ricerche, “economia” e “politica estera” si sono sempre alternate come tema cruciale in tutte le campagne presidenziali statunitensi. La politica estera è stata dominante nel 1948, nel 1952, nel 1960, nel 1964, nel 1968 e poi nel 2004. In tutte le altre ha prevalso l’economia. Vi sono poi temi specifici che caratterizzano le singole elezioni e che esulano da queste indagini. Per esempio, le contestazioni studentesche nel 1968, il Watergate e il perdono presidenziale di Ford a Nixon nel 1976 oppure gli scandali di Clinton nel 1996 e nel 2000.

Poiché l’attenzione degli elettori per i temi economici è massima in tempi di difficoltà, i recenti sviluppi positivi dell’economia americana – la sensibile crescita del PIL e finalmente anche la ripresa dell’occupazione -hanno fatto un po’ calare l’attenzione degli elettori statunitensi in merito. Nel 2009, nel pieno della Grande Recessione, l’89% degli elettori riteneva che l’economia fosse il tema più importante per il paese, ora “solo” il 67% lo pensa. È invece in lieve aumento il numero di elettori che menziona la politica estera come argomento più rilevante della campagna elettorale in corso. Anche in questo caso, le questioni in gioco sono tante: dall’accordo sul nucleare iraniano al disgelo con Cuba, dal TTIP al Medio Oriente, fino ai rapporti nuovamente molto tesi con la Russia.

I dibattiti televisivi sembrano però raccontare un’altra storia e, soprattutto, mostrano due competizioni di partito assai diverse. Repubblicani e Democratici non sono divisi solo sulle soluzioni da adottare ma anche su quali siano i temi di interesse primario per la nazione. I candidati dei due partiti sono sembrati descrivere due paesi distinti, due realtà diverse.

Quelli repubblicani si sono concentrati sulla necessità di ridurre le tasse, di operare una profonda deregulation a favore delle imprese e di limitare i programmi di welfare. Più aggressivi e apocalittici, essi hanno parlato in termini profondamente negativi dei matrimoni omosessuali e hanno dipinto Putin come il nemico dei prossimi quattro anni. Inoltre, trainati dalle sparate xenofobe di Trump, i candidati repubblicani si sono confrontati a lungo sul tema dell’immigrazione, tutti concordi sulla necessità di adottare una linea più dura contro i clandestini.

Il dibattito democratico è sembrato essere invece più simile a un convegno accademico che a un confronto elettorale. In un clima di grande fair play (forse favorito dalla candidatura per molti inattaccabile della Clinton), si sono affrontati i temi del surriscaldamento globale e del cambiamento climatico, dei debiti degli studenti universitari e delle violenze della polizia nei confronti degli afro-americani. Gli immigrati illegali sono stati descritti come onesti lavoratori che hanno bisogno di essere integrati e portati a un rapido ottenimento della cittadinanza americana. In linea quindi con le posizioni di Obama e con la sua riforma dell’immigrazione che è attualmente al vaglio di numerose corti federali.

Il tema dell’immigrazione è potenzialmente cruciale, specie negli stati dove il voto dell’elettorato latino conterà di più. In almeno cinque swing states (Colorado, Nevada, New Mexico, Florida e Virginia) le parole dei candidati su questa questione giocheranno un ruolo importante nelle primarie e cruciale nel contesto dell’elezione generale. E mentre i candidati democratici sono schierati con la riforma di Obama, in campo repubblicano la corsa è a conquistare l’elettorato più radicalizzato, quello profondamente ostile agli immigrati. L’unico che sembra andare controcorrente è Jeb Bush, che ha dichiarato di essere a favore della riforma proposta dall’amministrazione uscente.

C’è tuttavia un altro tema che è stato affrontato in entrambi i dibattiti e che potrebbe rivelarsi il più caratterizzante dell’intera campagna elettorale. È quello del controllo delle armi da fuoco. Anche qui i candidati dei due partiti hanno visioni opposte. I Democratici propendono per la necessità di porre limiti alla vendita e al possesso delle armi, mentre i Repubblicani sono sostanzialmente soddisfatti della legislazione attuale. Con toni molto accesi, Hillary Clinton ha descritto la violenza prodotta dalla diffusione delle armi come una situazione ormai fuori controllo e che richiede nuovi e più severi limiti. In campo repubblicano, invece, Jeb Bush, uno dei candidati considerati più moderati, ha descritto le stragi nelle scuole americane come la conseguenza della disgregazione della famiglia tradizionale e alla debolezza di leggi che non puniscono a dovere i criminali. Un segno ulteriore che il tema del gun control stia emergendo è dato dal fatto che l’unico momento di tensione del dibattito democratico si è avuto quando Clinton ha attaccato Sanders per aver alcune volte votato in Senato in linea con la lobby delle armi.

La questione è però spinosa e, in passato, i candidati democratici hanno spesso evitato di esporsi direttamente in campagna elettorale. Proprio per questa tradizionale cautela, dovuta anche alla notevole influenza economica e mediatica della NRA – la lobby delle armi – molti commentatori hanno ritenuto che le recenti prese di posizione di Obama, molto dure in proposito, siano unicamente dovute al fatto che sia a fine mandato senza possibilità di ricandidatura e che quindi non debba sottostare a calcoli elettorali. Lo stesso Obama, infatti, nelle campagne presidenziali del 2008 e del 2012, ha sempre evitato l’argomento pur avendo già una chiara opinione contro la proliferazione delle armi.

I sondaggi al riguardo offrono una realtà contraddittoria. Da un lato, gli americani, a larghissima maggioranza (85-92%), sono a favore di maggiori controlli sulla vendita delle armi, sulla promulgazione di leggi che impediscano ai malati di mente di acquistarne e a favore dell’introduzione di un registro federale dei possessori di armi. Dall’altro, meno della metà dei cittadini vuole più restrizioni sul loro possesso e oltre il 50% dell’elettorato è convinto che limitazioni e controlli più restrittivi non impedirebbero ai criminali di acquistarne comunque. È perciò probabile che sul gun control si giocherà buona parte della nomination democratica e molta della battaglia per la presidenza, in un contesto mediatico complesso dove anche le sfumature retoriche potrebbero influenzare l’opinione pubblica e orientare fette decisive di elettorato.