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I probabili volti nuovi del dopo-midterm

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John Po­de­sta la de­fi­ni­sce una “ri­cer­ca di i­den­ti­tà” mentre Da­vid I­gna­tius usa l’e­spres­sio­ne “cam­bio di co­pio­ne”. A pre­scin­de­re dal­la ter­mi­no­lo­gia preferita, a Wash­ing­ton si re­spi­ra l’a­ria di un con­si­sten­te rim­pa­sto den­tro l’am­mi­ni­stra­zio­ne O­ba­ma all’in­do­ma­ni del vo­to del 2 no­vem­bre per il rin­no­vo del Con­gres­so. I mo­ti­vi dei cam­bia­men­ti so­no descritti dalla cronaca delle ultime settimane: i De­mo­cra­ti­ci so­no a tal pun­to con­vin­ti di an­da­re in­con­tro a una scon­fit­ta alle urne che mol­ti can­di­da­ti in liz­za chie­do­no a Barack O­ba­ma di stare alla larga dai co­mi­zi; l’Ame­ri­ca è spaz­za­ta da una ven­ta­ta di pro­te­sta an­ti-e­sta­blish­ment che va ben oltre il fenomeno dei Tea Party e nasce dal­la pro­te­sta del ce­to me­dio fla­gel­la­to da una di­soc­cu­pa­zio­ne che non accenna a diminuire; tut­te le pre­vi­sio­ni fat­te ne­gli ul­ti­mi 24 me­si sul­la ri­pre­sa dell’oc­cu­pazione so­no risultate er­ra­te, obbligando il governo ad una continua rincorsa di notizie negative. Per ri­pren­de­re l’i­ni­zia­ti­va all’in­do­ma­ni di una scon­fit­ta an­nun­cia­ta da tut­ti i son­dag­gi, O­ba­ma do­vrà dun­que ri­met­te­re ma­no al­la sua squa­dra.

Saranno probabilmente le dimensioni dell’esito elettorale a condizionare l’entità del rimpasto ma in pochi dubitano sul fatto che avverrà. Da qui le i­po­te­si di cui si par­la. Il mi­ni­stro più tra­bal­lan­te è Tim Geith­ner, ti­to­la­re dell’E­co­no­mia. O­ba­ma lo ha di­fe­so a spa­da trat­ta per due an­ni dalle critiche degli economisti liberal che lo accusano di essere stato corresponsabile della strategia del salvataggio delle banche con danaro pubblico, nonché di aver impedito il varo di uno stimolo fiscale di dimensioni superiori. Ma aora gli vie­ne at­tri­bui­to anche l’er­ro­re – elettoralmente esplosivo – di a­ver co­nia­to in giugno l’e­spres­sio­ne “Re­co­ve­ry Sum­mer” per un’e­sta­te in realtà ter­mi­na­ta con i di­soc­cu­pa­ti in au­men­to. La rab­bia dei can­di­da­ti De­mo­cra­ti­ci nei suoi confronti è ta­le da met­ter­lo nel mi­ri­no. Fra i can­di­da­ti na­tura­li a suc­ce­der­e a Geithner ci sarebbe stato Lar­ry Sum­mers, con­si­glie­re e­co­no­mi­co del pre­si­den­te, ma nei giorni scorsi è stato annunciato che Summers lascerà l’Amministrazione entro l’anno. Non solo: le vo­ci circolate sul sin­da­co di New York Mi­chael Bloom­berg – seb­be­ne smen­ti­te dal di­ret­to in­te­res­sa­to – la­scia­no in­ten­de­re che O­ba­ma pos­sa sce­glie­re un vol­to e­ster­no, di ri­co­no­sciu­ta com­pe­ten­za a Wall Street e so­prat­tut­to in gra­do di es­se­re cre­di­bi­le per gli e­let­to­ri in­di­pen­den­ti. Sen­za di loro, infatti, la rie­le­zio­ne nel 2012 sa­reb­be a ri­schio. Non è un caso che Podesta, parlando del rimpasto, abbia previsto “nomine grazie alle quali Obama potrà parlare con Wall Street” ovvero la cassaforte di finanziamenti che lo sostenne nel 2008 ed ora gli ha voltato le spalle, imputandogli l’aumento delle tasse, strategie errate sull’occupazione e una riforma finanziaria destinata a frenare la ripresa. Il nodo di Wall Street è cruciale per Obama perché se l’occupazione ancora non riprende è perché le aziende private stentano a investire nel lavoro i profitti accumulati negli ultimi due anni. At­tor­no al­lo sce­na­rio del do­po-Geith­ner ruo­ta an­che il rias­set­to dei con­si­glie­ri e­co­no­mi­ci: l’u­sci­ta di Chri­sti­na Ro­mer e Pe­ter Or­szag ha in­de­bo­li­to di mol­to il team, che ha bi­so­gno di un ri­lan­cio non so­lo di no­mi ma an­che di i­dee. L’im­po­sta­zio­ne key­ne­sia­na che ruo­ta­va at­tor­no al­lo sti­mo­lo con fon­di pub­bli­ci non ha fun­zio­na­to e dun­que O­ba­ma deve in­no­va­re.

Poi c’è il no­do del Pen­ta­go­no: Ro­bert Ga­tes ha più vol­te prean­nun­cia­to la vo­lon­tà di la­scia­re l’in­ca­ri­co nel 2011 e ciò tra­sfor­ma Hil­la­ry Clin­ton nel­la can­di­da­ta na­tu­ra­le a suc­ce­der­gli – seb­be­ne lei smen­ti­sca – per­ché nel­la com­pa­gi­ne di go­ver­no non vi so­no mi­ni­stri al­tret­tan­to e­sper­ti sui temi della si­cu­rez­za nazionale. Co­me rias­su­me Le­slie Gelb, ex pre­si­den­te del Coun­cil on Fo­reign Re­la­tions, “i mi­li­ta­ri a­ma­no Hil­la­ry”. Se la Clin­ton la­scias­se il Di­par­ti­men­to di Sta­to, i pa­pa­bi­li al­la suc­ces­sio­ne non man­che­reb­be­ro – da Ri­chard Hol­broo­ke a Su­san Ri­ce – men­tre se la staf­fet­ta mi­ni­ste­ria­le non do­ves­se av­ve­ni­re il can­di­da­to più po­po­la­re al­la gui­da del Pen­ta­go­no di­ven­te­reb­be il ge­ne­ra­le Da­vid Pe­traeus, at­tua­le ca­po del­le trup­pe in Af­gha­ni­stan. An­che Pe­traeus, co­me Bloom­berg, po­treb­be ser­vi­re a O­ba­ma per rac­co­glie­re con­sen­si nell’e­let­to­ra­to in­di­pen­den­te e da­re l’im­pres­sio­ne di una svol­ta, guardando al 2012.

Co­me se non ba­stas­se, si è chiusa l’esperienza alla Casa Bianca (nella casella più importante) di Rahm E­ma­nuel: l’in­fluen­te ca­po di ga­bi­net­to è en­tra­to nel­la cam­pa­gna e­let­to­ra­le per di­ven­ta­re sin­da­co di Chi­ca­go, la­scian­do la posizione a Pete Rouse (che è stato chief of staff di Obama al Senato). D’al­tra par­te E­ma­nuel, no­to per cer­ca­re gli scon­tri fron­ta­li con gli av­ver­sa­ri, sarebbe stato un ca­po di ga­bi­net­to in­com­pa­ti­bi­le con un Con­gres­so do­ve i Re­pub­bli­ca­ni a­vran­no più seg­gi e dunque molta vo­ce in capitolo, mentre Rouse ha uno stile decisamente meno aggressivo.

Se a ciò ag­giun­gia­mo che il gu­ru pol­ti­co Da­vid A­xel­rod qual­che me­se fa am­mi­se di a­ver pro­mes­so ad O­ba­ma “non più di due an­ni di vi­ta”, e che il con­si­glie­re per la si­cu­rez­za Jim Jo­nes vie­ne da­to da tem­po in u­sci­ta a fa­vo­re del ram­pan­te vi­ce Den­nis McDo­nough, non è dif­fi­ci­le in­tui­re quan­te e qua­li no­vi­tà si pro­fi­la­no all’orizzonte del do­po-mid­term.