international analysis and commentary

I paradossi del nuovo Medio Oriente e i costi della democrazia

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Chiunque avesse pensato che la primavera araba potesse, attraverso la mobilitazione delle piazze, semplificare la cartina politica del Grande Medio Oriente con la democrazia in versione araba nella funzione di equalizer (cosi come accadde con l’Europa post-comunista dopo l’89) è rimasto deluso. Dalle rivoluzioni ancora in corso sta piuttosto emergendo un quadro molto variegato, un Medio Oriente “a più velocità”. Vediamo oggi almeno quattro diverse realtà: i paesi come l’Egitto e la Tunisia, alle prese con una seppur tortuosa transizione alla democrazia; paesi come la Siria e lo Yemen, con le rivolte represse nel sangue e ad alto rischio di implosione interna; le monarchie del Golfo dove è sopravvissuto lo status quo. Le monarchie non petrolifere, Marocco e Giordania, hanno invece optato per alcune riforme preventive per evitare l’effetto tsunami delle piazze.  

Il primo e più evidente effetto della primavera araba e che essa ha, almeno per ora, allargato la forbice delle diseguaglianze economiche nella regione, ha reso i ricchi più ricchi e i poveri più poveri. I paesi del Golfo, già ricchi, hanno beneficiato ulteriormente del rialzo dei prezzi petroliferi. Grazie alla rendita petrolifera e alle maggiori capacità redistributive sono riusciti a schivare la valanga democratica e a consolidarsi. I paesi non petroliferi, Egitto e Tunisia in primis, dopo essere stati investiti dalla piazza a causa della loro inadeguatezza economico-distributiva, hanno visto le loro economie contrarsi ulteriormente a seguito delle transizioni. Secondo le previsioni la maggior parte dei paesi mediorientali non petroliferi, quali Egitto, Tunisia, Siria e Libano registreranno quest’anno una crescita negativa. L’Egitto avrà una contrazione dell’economia del 2,5% (in Yemen addirittura del 4%). Si aggiunge la fuga di capitali: secondo Al Hayat 30 miliardi di dollari hanno già lasciato l’Egitto dall’inizio della primavera araba. Le riserve egiziane di valuta si sono contratte del 25%. I paesi in transizione verso una maggiore democrazia (almeno si spera), insomma, stanno già pagando salatamente la bolletta della transizione e continueranno a pagarla, almeno nel breve periodo. Sul fronte opposto, le monarchie petrolifere del Golfo cumulano i vantaggi dello status quo politico e della rendita economico-energetica.

Le asimmetrie del Medio Oriente multi-speed si ripropongono sul fronte della sicurezza. Sul piano politico Arabia Saudita e Consiglio di Cooperazione del Golfo riescono ad autogestirsi la sicurezza della loro area (vedi il ruolo saudita nelle crisi del Bahrein e dello Yemen), su delega più o meno tacita del resto della comunità internazionale. Il caso Libia dimostra la capacità e potenzialità anche di outreach dei paesi del Golfo (in questo caso in particolare il Qatar), in grado di fare da co-gendarmi anche nell’area mediterranea.

Questo quadro del Medio Oriente multi-speed – dove i paesi in trasformazione diventano più poveri, mentre i paesi politicamente statici consolidano le loro ricchezze e status regionale –  rischia di consolidarsi per effetto delle strategie internazionali. In reazione alle rivoluzioni arabe la comunità internazionale, dal G8 all’UE, ha scelto l’approccio della condizionalità. Saranno premiati quei paesi virtuosi che meglio attueranno le riforme politiche ed economiche, secondo il principio more for more. I paesi meno zelanti riceveranno meno. La merito-democrazia varrà solo per i paesi che hanno in qualche modo sfidato lo status quo, e non varrà ovviamente per i paesi che lo hanno mantenuto.

Merito-democrazia e conservazione sono inevitabilmente destinate a convivere nell’approccio internazionale al Medio Oriente allargato. La stabilità dell’Arabia Saudita e del Golfo è infatti un common good che né l’Occidente né il resto della comunità internazionale possono permettersi di porre in discussione, vuoi per la propria sicurezza energetica, vuoi per il ruolo di baluardo anti-Iran che questi paesi svolgono, ruolo divenuto ancor più importante dopo il riorientamento della politica estera egiziana. La stessa realpolitk impone oggi sia il sostegno alla democratizzazione di alcuni paesi (in cui senza riforme sarebbe impossibile recuperare la stabilità) sia il sostegno alla conservazione in altri. Una politica one size fits all per il Medio Oriente allargato non sarebbe, appunto realisticamente, immaginabile. L’Occidente e la comunità internazionale potrebbero però, pur nel quadro di politiche differenziate, cogliere alcuni aspetti di policy comuni, validi per l’intera regione, che servano a porre le basi per una stabilità aggiornata alla realtà dei nostri tempi. Il dialogo e l’engagement attivo delle società civili, programmi people-to-people e scambi giovanili sono strumenti applicabili a tutti i paesi, che possono favorire apertura, pensiero positivo, il superamento di una serie di sensi di frustrazione. Così come bisognerebbe pensare in concreto di avviare un’iniziativa per dar vita ad una cornice di dialogo intra-regionale, anche “leggera”, che aiuti a collegare la regione e a radicarvi una mentalità fondata sulla cooperazione e anziché la competizione.