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I nuovi accordi di Minsk e le dinamiche sul terreno

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La stretta di mano fugace e appena accennata tra Vladimir Putin e Petro Porochenko il 12 febbraio traduce alla perfezione la fragilità dell’accordo raggiunto a Minsk. È stato l’unico contatto tra i due durante le 16 ore di trattative che hanno portato alla tregua stipulata tra il governo ucraino e i ribelli pro-russi.

Un’intesa fragile non solo perché il precedente cessate il fuoco, pattuito in settembre sempre a Minsk benché con il coinvolgimento di differenti attori, era naufragato nel giro di pochissimo tempo – anzi, l’attività e l’aggressività delle forze ribelli aveva continuato a crescere, nelle settimane successive. Ma anche e soprattutto perché la tenuta dell’accordo (del quale alcuni dettagli restano ignoti) dipende da una serie di fattori – politici, economici, psicologici – che sfuggono al controllo sia dei firmatari, Ucraina e Russia, sia ancor più dei garanti della tregua, Germania e Francia.

La sostenibilità finanziaria dello Stato ucraino è uno dei grandi nodi della questione. Solo la regione di Donetsk, il Donbass (nel cuore dell’area in cui l’attività militare dei ribelli si è sviluppata), costava a Kiev in termini di sussidi e manutenzione dell’immenso apparato industriale-minerario 440 milioni l’anno, potendo garantire allo stesso tempo una resa di 130. Il fatto che quel distretto sia così dipendente dai contributi esterni e la struttura oligarchico-familistica dell’economia dell’area fa sì che diversi soggetti aspirino a mettere le mani sui consistenti flussi di denaro.

Per quanto riguarda i ribelli pro-russi, la prospettiva di un’annessione a Mosca offrirebbe un’ottima via d’accesso ai fondi, una volta che i signori della guerra avessero consolidato la loro influenza sulla regione. Dunque, tra i pochissimi argomenti “non militari” in grado di convincerli a deporre le armi c’è quello della concessione di una vasta autonomia politico-amministrativa alle regioni contese – in modo che possano impadronirsene (legittimamente) attraverso il processo elettorale. Per quanto il governo di Kiev rinuncerà a malincuore sia alla potestà politica diretta, sia a quella economica e finanziaria, è chiaro che alle condizioni attuali questo è uno dei punti cruciali perché il cessate il fuoco abbia qualche speranza di essere duraturo.

D’altro canto Kiev aveva già sospeso in dicembre tutti i servizi pubblici, compreso il pagamento di stipendi e pensioni, e i servizi bancari nelle regioni in guerra. Erano soldi di cui i capi della ribellione entravano facilmente in possesso, e utilizzavano per il loro sostentamento e l’acquisto di armi: due esigenze che erano passate a carico di Mosca, una volta chiuso il rubinetto da Kiev. Ma la Russia non ha alcuna intenzione – né il suo bilancio glielo permetterebbe – di finanziare la ribellione a lungo termine; ecco dunque che tra i termini dell’accordo potrebbe essere stato inserito il ripristino dei legami economici con Kiev, in cambio di un impegno della Russia a interrompere la fornitura di armi ai ribelli.

Tali questioni, apparentemente di secondo piano sullo scacchiere diplomatico internazionale, ci servono però a comprendere due elementi decisivi della questione ucraina. Il primo è che qualsiasi volontà o strategia diplomatica, che sia russa o occidentale, non può ormai prescindere dai fattori in azione “sul campo”. Il secondo è che ogni trattativa tra le parti in causa avrà bisogno di dosi massicce di pragmatismo ed elasticità, perché diverse delle condizioni necessarie a una vera fine dei combattimenti non possono per forza di cose essere garantite sul momento – non avendo altri strumenti a disposizione che quello diplomatico.

Bisogna inoltre considerare che, al di là delle possibili conseguenze positive delle sanzioni sulla Russia e sull’entourage economico di Vladimir Putin, il conflitto ucraino offre importanti vantaggi politici al Cremlino. Per prima cosa perché nazionalismo e separatismo sono fattori fortissimi per bloccare la possibile transizione alla democrazia nei Paesi satelliti della Russia: la presenza di “conflitti latenti”, “minoranze tutelate” e “autonomie amministrative” consente alla Russia di influenzare il processo politico e i governi filo-occidentali della Georgia e della Moldavia, e lo stesso accadrà anche a Kiev – pur con le dovute differenze di dimensione del Paese. Inoltre, ogni conflitto è l’occasione di rafforzare il sistema militare-poliziesco tanto utile all’autoritarismo di Putin, grazie a un continuo trasferimento di risorse verso i settori che si occupano di polizia, spionaggio, intelligence e armi.

Il compromesso di Minsk si deve all’iniziativa diplomatica franco-tedesca – ma sarebbe meglio dire tedesco-francese – che ha lasciato sostanzialmente fuori dalle trattative sia l’Unione Europea e la sua Alta rappresentante Federica Mogherini, sia altri Paesi membri che avrebbero potuto essere coinvolti, come Regno Unito, Italia e Polonia. Ciononostante, la “fuga in avanti” ispirata da un’inattesa e insolita attività diplomatica della Germania, ha almeno due punti di forza: da un lato, gli Stati dell’UE sono ancora troppo divisi al loro interno perché una posizione solida potesse essere raggiunta in breve tempo e poi presentata alle parti in causa. Dall’altro, la scelta di Angela Merkel di rappresentare la “visione mediana”, con l’aiuto che la Francia poteva conferire in termini di legittimità, ha avuto il vantaggio di isolare le posizioni più estreme – da non dimenticare il viaggio della Cancelliera a Washington nei giorni immediatamente precedenti l’incontro di Minsk.

Stava crescendo infatti, sia negli Stati Uniti che in Europa – in particolare in Regno Unito, Polonia e Paesi Baltici – il fronte di chi vede nella fornitura di armi all’Ucraina una possibile soluzione del conflitto. Soluzione pericolosissima, se consideriamo le condizioni dello Stato ucraino e del suo esercito, di cui non è certa nemmeno la generale obbedienza a Kiev: gli armamenti sfuggirebbero presto al controllo ufficiale perdendosi per chissà quali canali, aumentando anziché diminuendo i rischi di un’evoluzione alla Jugoslava della crisi. Allo stesso tempo, al tavolo negoziale non erano rappresentate le posizioni di chi era pronto a concedere forse troppo a Mosca – come l’Ucraina e la stessa Germania in passato avevano rimproverato all’Italia.

Ciò non toglie nulla, come detto, alla fragilità dell’accordo raggiunto a Minsk. Perfino se questo dovesse reggere, restano molte e fondamentali questioni che contrappongono la Russia, l’Ucraina e gli Stati dell’Unione Europea: dal conflitto di interessi tra Bruxelles e Mosca sugli Stati che ora sono economicamente satelliti della Russia, alla questione della sorveglianza sui confini tra le zone controllate dai ribelli in Ucraina e il territorio russo, alla convenienza – per Mosca – di aprire un nuovo fronte di crisi, su un altro scenario, per allentare la pressione internazionale sull’Ucraina. È chiaro però che problemi di questa portata non potranno essere affrontati dall’estemporanea iniziativa diplomatica di soli due Paesi.