La Tunisia continua ad essere attraversata da una profonda crisi politico-istituzionale che si lega a doppio filo sia con le questioni di sicurezza nazionale sia con quelle di stretta contingenza economica. Sono passati due mesi dall’assassinio di Chokri Belaid, attivista e segretario del Movimento dei Patrioti democratici, e dalla crisi di governo che ne è conseguita a causa anche delle dimissioni del primo ministro Hamadi Jebali – peraltro osteggiate proprio dal partito di maggioranza relativa Ennadha.
Sebbene il nuovo esecutivo guidato da Ali Laarayedh – membro dell’ala dura di Ennadha e già ministro degli Interni nel 2011 – abbia espresso la volontà di favorire il dialogo con tutte le forze politiche in campo e rappresentare tutte le parti sociali, esso dovrà assumere in tempi molto brevi decisioni difficili in ambito economico, sociale e di sicurezza. Negli ultimi mesi un certo islamismo salafita è sfociato in gravi episodi di violenza quali il linciaggio di Lofti Nagdh, coordinatore regionale di Nidaa Tounes – partito politico di stampo secolarista e modernista fondato da Beji Caid Essebsi, ex ministro degli Esteri durante l’era Bourguiba ed ex primo ministro nel post-Ben Ali –, l’assalto alla manifestazione dell’Unione generale dei Lavoratori tunisini e, appunto, l’assassinio di Belaid. Il neo premier sarà chiamato per mettere a tacere le voci, vere o presunte, di un atteggiamento connivente delle stesse istituzioni tunisine nei confronti dei gruppi appartenenti alla galassia salafita, ad iniziare dalla Lega per la Protezione della Rivoluzione. Questo sospetto ha fatto supporre una possibile deriva islamista del paese incoraggiata dalle monarchie del Golfo. D’altra parte, gli stessi episodi di violenza sono figli non solo dell’ambiguità degli esponenti del governo, ma anche di un sostanziale immobilismo politico seguito alla caduta del regime benalista – come evidenziato dall’esistenza di divisioni interne tra Ennadha e l’ala secolarista formata dal socialdemocratico Ettakatol e dal laico di centro-sinistra Congrès pour la République (CpR), le quali formano la cosiddetta troika al potere a Tunisi –, nonché dallo stallo nella redazione della Carta costituzionale da parte dell’Assemblea nazionale costituente con il rischio concreto di far slittare le elezioni parlamentari e presidenziali tra ottobre e dicembre del 2013 – e dal susseguirsi di scandali (come quello che ha travolto il ministro degli Esteri Rafik Abdessalam nello “Sheraton Gate”) che hanno minato la credibilità stessa di un governo realmente riformatore.
Garantire sicurezza e ordine pubblico diviene ancora più urgente se si pensa alla necessità di attrarre investitori nazionali e stranieri per rilanciare l’economia nazionale. Sebbene le previsioni di crescita per il 2013 siano tendenzialmente positive in termini di PIL (3,3% secondo l’Economist Intelligence Unit), la situazione economica resta grave: lotta alla disoccupazione (soprattutto quella giovanile che ha toccato punte del 20% tra i giovani under-trenta), all’inflazione (schizzata al 9%, il dato più alto negli ultimi sette anni) e alla corruzione sono i punti chiave dell’agenda di politica economica del nuovo esecutivo tunisino. Una situazione che non può non fare i conti con la persistente crisi del debito in Europa, da cui Tunisi è dipendente in termini di export – prima della rivoluzione la dipendenza era del 75% –, di entrate del turismo, di rimesse e di afflussi di investimenti.
Alla luce, dunque, di un quadro generale piuttosto negativo, nonché del recente declassamento da parte di Moody’s (da Baa3 a Ba1), il governo di Tunisi ha deciso di riprendere rapidamente le trattative con il Fondo monetario internazionale per la concessione di un prestito da 1,8 miliardi di dollari, le cui prime tranche dovrebbero essere erogate all’inizio di maggio. Se il ministro delle Finanze Elyes Fakhfakh e il governatore della Banca Centrale Chadli Ayari – impegnati in questi giorni nelle trattative con i rappresentati dell’istituzione di Washington – hanno sostenuto in un’intervista su Al-Arabiya che “il prestito è l’unico modo per rilanciare l’economia nazionale e (…) contenere il debito tunisino che equivale al 47% del PIL”, non mancano tuttavia le voci discordanti di cittadini che ritengono gli aiuti internazionali una scelta sbagliata del governo, che causerà dolorose e contro-producenti misure di austerità . Come nel caso egiziano, infatti, la concessione del prestito per Tunisi, rimborsabile in cinque anni, è condizionata all’attuazione di un ferreo programma di riforme strutturali da realizzare nei prossimi ventiquattro mesi, incentrato su tagli dei sussidi statali (che rappresentano il 5% del PIL), dello stato sociale e della spesa pubblica, aumento dell’IVA e della pressione fiscale – con un prevedibile incremento dei prezzi di carburanti e dei beni di largo consumo –, privatizzazione dei servizi sociali pubblici, più flessibilità del mercato del lavoro ed, infine, una legislazione nazionale che favorisca gli investimenti diretti esteri nel paese.
Il prestito del Fondo monetario internazionale non sarà ad ogni modo il solo aiuto internazionale in dote al paese: già nei mesi scorsi Tunisi aveva ottenuto due prestiti da 500 milioni di dollari dalla Banca mondiale e dall’African Development Bank, oltre che sussidi dal Qatar (700 milioni), dal governo statunitense e dall’UE (entrambi con donazioni da circa 400 milioni di dollari), dalla Turchia, e dall’agenzia dello sviluppo francese. Denaro, questo, usato finora solo per colmare le falle nei conti tunisini. Secondo le previsioni del ministero dell’Economia, lo stesso prestito del FMI servirà a coprire il buco di bilancio per la gestione finanziaria 2014, senza il quale l’esecutivo non avrebbe la disponibilità finanziaria necessaria a garantire la normale attività legislativa e di governo. Si tratta insomma di interventi che, per quanto fondamentali, potrebbero non essere sufficienti a dare il giusto stimolo alla ripresa economica.
A distanza di due anni dalla rivoluzione, la scelta di accumulare altro debito pubblico per finanziare il rimborso di quello preesistente non sembra essere la strada giusta per invertire la tendenza attuale. Il rischio è che l’aggravarsi della crisi politica ed economica possa alimentare le tensioni sociali e rinvigorire i movimenti più estremisti, stringendo la Tunisia in un pericoloso ed inestricabile circolo vizioso dagli esiti imprevedibili.