La lunga crisi economica occidentale, con l’emergenza del debito, la governance debole in Europa e i problemi fiscali in America, hanno posto seri dubbi sull’opportunità di continuare a investire nella regione atlantica. Ciononostante Stati Uniti e Unione Europea restano i due mercati maggiormente integrati a livello mondiale, con un flusso commerciale di oltre cinque trilioni di dollari e economie che rappresentano oltre la metà del PIL mondiale.
L’UE attrae ancora circa la metà degli investimenti esteri diretti (FDI) statunitensi, confermando il trend della scorsa decade (2000-2009) quando il 56% di questi FDI fluì verso il vecchio continente. Ma se la Germania è la destinazione primaria degli investimenti americani – seguita dalla Polonia, che dal 2000 ne ha ricevuti approssimativamente cinque miliardi di dollari – l’Italia ha registrato una contrazione pari a circa il 50%, mentre il Regno Unito ha sofferto una diminuzione di un quarto, facendosi superare dai Paesi Bassi. È importante notare, inoltre, che dal 2000 ad oggi i gruppi americani hanno investito di più nei Paesi Bassi e nel Regno Unito – presi singolarmente – che in Africa, America Latina e Medio Oriente messi assieme. Si pensi poi che gli investimenti americani in Brasile dal 2000 ad oggi ammontano a circa quaranta miliardi di dollari, neanche tre quarti di quelli arrivati in Belgio nel medesimo periodo, mentre quelli in Irlanda superano di oltre il 40% quelli nell’intera America Latina.
Altro dato interessante è quello dell’output generato dai gruppi americani al di fuori degli USA. Poco meno della metà proviene ancora dall’Europa – oltre un trilione di euro – con il terziario che ha oramai superato definitivamente il manifatturiero come settore leader. E se i ricavi dal Regno Unito superano quelli generati in America Latina, l’intera area del Pacifico ed Asia produce, per gli americani, circa la metà degli introiti dell’Europa.
Nonostante la forte crisi economica, quindi, il vecchio continente è ancora il mercato più remunerativo per le corporation americane.
Il rovescio della medaglia ci dice che, storicamente, gli investimenti europei negli Stati Uniti rappresentano circa i due terzi dei FDI totali. Tuttavia la persistente crisi del debito nell’Unione Europea, il sempre maggiore costo del denaro e la crisi economica hanno costretto molti gruppi europei a ridurre la loro presenza oltreoceano. Questa tendenza è particolarmente evidente nel periodo 2010-2011, quando gli FDI europei in America sono scesi da 170 a 120 miliardi di dollari. Ciononostante, il mercato statunitense rimane il più redditizio per i gruppi europei, in particolare per quelli tedeschi – che da soli coprono il 20% dei ricavi – e quelli britannici – 25% – entrambi ben al di sopra dei valori registrati dalle imprese giapponesi. È importante anche sottolineare come le sussidiarie di gruppi europei generano quasi i due terzi dell’output prodotto da gruppi stranieri negli USA – circa 600 miliardi di dollari.
Il flusso commerciale fra Stati Uniti e Unione Europea continua quindi a mantenere volumi elevati e, nel periodo 2000-2010, ha registrato un aumento di poco superiore al 60%, per un valore totale di circa 630 miliardi di dollari. Ed è la bilancia commerciale statunitense ad avere un disavanzo verso l’Europa, per un massimo di circa 90 miliardi di dollari toccato nel 2011.
Stati Uniti e Unione Europea detengono inoltre la leadership mondiale nel settore dei servizi. E anche qui, il rapporto tra le due sponde dell’Atlantico è predominante. Cinque dei dieci mercati dei servizi più importanti per gli americani si trovano in Europa e, nella prima decade del 2000, l’export americano verso il vecchio continente è quasi raddoppiato, passando da 106 miliardi di dollari ai circa 200. Come è facile immaginare, il Regno Unito gioca la parte da leone, ricevendone circa un terzo.
A livello di occupazione, i gruppi a stelle e strisce in Europa, in particolare in Germania, Francia e Regno Unito, impiegano un numero di lavoratori doppio rispetto a quelli in Cina. Inoltre, nell’Europa dell’Est le società americane hanno raddoppiato la loro forza lavoro nel corso degli ultimi tredici anni. Nel comparto manifatturiero, la forza lavoro dei gruppi americani in Europa è cresciuta di circa il 10% nel periodo 1990-2010 e vi sono più operai impiegati da società statunitensi in Germania (circa 370 mila) che in Brasile (300 mila). Per converso, società controllate da gruppi europei danno lavoro a oltre tre milioni di operai americani, circa due terzi dei posti di lavoro creati da gruppi stranieri sul suolo statunitense.
A riprova della vivacità che caratterizza ancora i mercati statunitense e europeo, è interessante notare anche il costante impegno in ricerca e sviluppo (R&D) delle società occidentali, le quali generano il 58% degli investimenti privati mondiali in R&D. In Europa tali investimenti si concentrano per lo più nei paesi dell’Europa centrale (Germania, Svizzera) o Nord occidentale (Belgio, Francia, Irlanda, Paesi Bassi, Regno Unito), mentre rimangono indietro i paesi mediterranei, da sempre caratterizzati da imprese a basso valore aggiunto.
Alla luce di questi dati è lampante non solo l’elevata integrazione raggiunta fra le due sponde dell’Atlantico, ma anche la reciproca rilevanza economica. La costante crescita delle economie emergenti, associata al mutato quadro internazionale sempre più multipolare e alle difficoltà dell’Occidente, pongono chiaramente dei dubbi circa il futuro ruolo di Stati Uniti e Unione Europea nell’economia mondiale. Ma, nonostante gli elevatissimi debiti pubblici, il costante invecchiamento della forza lavoro e i problemi delle bilance dei pagamenti, è reale immaginare che, anche se forse meno predominanti che in passato, questi resteranno due player fondamentali nello scenario internazionale.