Le elezioni afgane del 18 settembre sono costate 150 milioni di dollari alla comunità internazionale. Poco si sa, invece, di quanto la campagna elettorale sia costata ai tanti aspiranti ai 249 scranni della Camera bassa. Kabul, Herat e gran parte delle città afgane sono state letteralmente tappezzate dai manifesti di uomini e donne, candidati in una rincorsa per molti senza speranza eppure irrinunciabile. Come ha scritto il Centro Studi afgano Areu, sia il singolo individuo che la sua comunità di provienienza considerano come un’occasione da non perdere la possibile conquista di un seggio della Wolesi Jirga.
Al momento la conta dei voti dice ancora poco. Secondo il New York Times, in almeno un terzo delle province la consultazione sarebbe stata ampiamente alterata da brogli. Al riguardo, interpellata il giorno dopo il voto, la Electoral Complaints Commission ha fornito dati “incoraggianti”, che però saranno confermati in via ufficiale solo alla fine di ottobre. Gli afgani che avrebbero votato sono oltre 4 milioni. Dunque, si pensa circa il 40%; sì, se solo fosse noto il numero degli aventi diritto effettivamente registrati. Si procede, insomma, per approssimazioni. Ed anche Fazal Ahmad Manawi, a capo della Independent Election Commission (organo ufficiale finanziato dal governo afgano e dei donatori internazionali), ha ammesso brogli, schede false, presenza di doppi elettori e la chiusura di quasi 500 seggi. Secondo Al Jazeera, nel seggio più importante di Kandahar, l’ex capitale talebana dove erano registrati oltre 1000 elettori, solo 200 si sono effettivamente recati alle urne. Lo stesso Karzai aveva messo le mani avanti: “Dobbiamo aspettarci delle irregolarità. Ci saranno dei problemi e delle accuse ma noi, tenuto conto delle circostanze, dobbiamo cercare di fare del nostro meglio per rendere queste elezioni un successo”.
Si può parlare di successo? Non è semplice dare un giudizio sull’ultima consultazione elettorale afgana. Anche perché, la prima domanda da porsi è come mai più della metà degli afgani siano rimasti a casa. Paura per le minacce talebane o aspettative deluse? È questo il vero dilemma elettorale che, almeno in parte, può essere chiarito da una geografia della paura elaborata in base al rapporto tra aree conflittuali e votanti effettivi.
Peter Galbraith, l’ex numero 2 di Unama che all’epoca delle presidenziali venne rimosso dal suo incarico per aver detto che Karzai avrebbe vinto con i brogli, ha fatto una riflessione semplice ed efficace: “Credo che la vera ragione per la quale molti afgani si sono astenuti sia che non si fidano, a ragione, della possibilità che il loro voto venga tenuto in conto. Perché rischiare la vita se la tua decisione sarà annullata?”
Se durante il conteggio dei voti non emergeranno, o non si faranno emergere, troppe irregolarità, l’argomento elezioni e i relativi imbarazzi saranno archiviati in fretta. Ma resta importante conoscere i nomi dei nuovi parlamentari afgani. Se è pur vero, infatti, che nove parlamentari su dieci della precedente legislatura si erano ricandidati con buone possibilità di farcela, potrebbero comunque emergere delle novità. Due, sostanzialmente: l’ingresso di volti nuovi e la possibilità che l’equilibrio parlamentare penda dalla parte dell’opposizione a Karzai, spalleggiata da Abdullah Abdullah. La storica Elisa Giunchi ne aggiunge una terza: “Per la prima volta molti candidati, tra cui moltissime donne, sono stati scelti in base ai programmi”.
Secondo la BBC, circa la metà dei candidati che si sono presentati hanno meno di trent’anni. “Alcuni – ha scritto Lyse Doucet – sono figli o figlie di uomini ricchi e potenti, ossia i vecchi signori della guerra”, che hanno dominato la scena durante la guerra ai sovietici e il primo Parlamento post-2001. Ma qualche sorpresa è possibile. Un quesito è se Ramazan Bashardost, l’outsider che nella passata legislatura raccolse il maggior numero di suffragi e che alle presidenziali arrivò terzo superando persino Ashraf Ghani, si riconfermerà come uno dei politici più amati, meno allineati e più “puri” del nuovo Parlamento. Chi, infine, ha raccolto i voti della nuova classe di giovani afgani che in questi anni ha potuto accedere agli studi superiori nell’unico settore, l’istruzione, che ha fatto davvero seri progressi in Afghanistan? Un gruppo sociale, quello giovanile, che pensa sempre meno in termini etnico-tribali, con una mentalità più “moderna” e nazionale.
Il tema della fiducia è un elemento essenziale per capire l’Afghanistan di oggi. Gli afgani sembrano molto delusi dalle promesse di una democrazia che deve apparire loro come una scatola vuota. Delusione che deriva dalle tante promesse non mantenute (come ad esempio l’elettricità per tutti), dal pessimo esito delle precedenti elezioni presidenziali, e dal quadro generale di queste ultime (la commissione di valutazione dei candidati non ha fatto un gran lavoro). Stanchi di trent’anni di guerra, dieci dei quali sotto il simbolo dell’aquila americana e della NATO, gli afgani cominciano a sopportare sempre meno la presenza degli stranieri. Nel complesso, non si fidano: né dei talebani, né di chi attualmente li governa da Kabul (di recente, il procuratore generale Mohammad Ishaq Alako ha ammesso a Tolo News che tutti i ministri hanno un dossier aperto in tribunale). D’altra parte, a questo punto la maggioranza della popolazione potrebbe anche chiudere un occhio – su elezioni più o meno serie, governanti più o meno corrotti, soldati stranieri che proteggono soprattutto loro stessi nella percezione diffusa – purché ora si negozi una pace autentica.
Il fattore a cui guardare per capire la palude afgana, più che la salute della sua giovane democrazia, è dunque il negoziato di pace, all’interno del quale le elezioni sono un piccolo tassello che può forse consolidare la legittimità del potere di Kabul. Non è un caso che proprio durante le elezioni, Karzai abbia rilanciato la nascita del Consiglio di pace, cui spetterebbe guidare una trattativa di cui sono ormai tutti convinti. Ma i punti oscuri restano. Dopo una lunga polemica su “con chi” trattare, il nodo riguarda i mediatori. Esaurito il ruolo dei sauditi, boicottati da Islamabad, i conti si fanno ora con il Pakistan, come concordano sia Karzai sia gli americani. Ma come esattamente?
La questione è complicata sotto molti aspetti, primo fra tutti il rischio che a decidere la partita sia un solo attore. Come ha scritto sul Corriere della Sera l’ex ambasciatore italiano in Pakistan Enrico De Maio, sarebbe necessario “stipulare un grande accordo internazionale dove si riaffermino i principi di rispetto dei diritti umani, di non interferenza e di integrità territoriale”. De Maio conosce molto bene il Pakistan (e l’Afghanistan): “È logico – conferma ad Aspenia online – che senza personaggi affidabili in un nuovo governo a Kabul, Islamabad non si fiderebbe mai di un Afghanistan indipendente”. Servirebbero, invece, dei contrappesi. Come sottolinea Elisa Giunchi, il Pakistan vorrebbe imporre solo uomini suoi e ovviamente pashtun perché, ad esempio, dei tagichi non si fida. Ciò può destabilizzare una democrazia fragile caratterizzata dalla questione etnica: è infatti la stessa scelta infelice che Islamabad applica in casa sua, dove non ha mai voluto dare ascolto alle rivendicazioni di autonomia delle minoranze etnico-linguistiche.
Situazione complessa e tutta da verificare, dunque. La buona notizia – ancor più di un nuovo e più rappresentativo Parlamento afgano – sarebbe vedere, dopo trent’anni, qualche schiarita sulla via maestra della pacificazione del paese.