international analysis and commentary

I cristiani nel mondo arabo: la vita difficile delle minoranze

825

L’attentato di Alessandria d’Egitto ha ovviamente puntato i riflettori sulle minoranze cristiane in Medio Oriente e nel mondo islamico: dall’Egitto stesso all’Iraq, fino al Pakistan. Si deve però ricordare che i cristiani sono parzialmente discriminati anche nell’India induista e in paesi come la Cina e la Corea del Nord. Il quadro è dunque molto composito.

Secondo un rapporto dell’AED (Aide à l’Église en détresse), un’associazione cattolica dipendente dalla Santa Sede, le persecuzioni contro i cristiani rappresentano il 75% di tutte le discriminazioni a carattere religioso nel mondo. Secondo i dati OSCE, tali percentuali sono in crescita nella stessa Europa, e sembra dunque lecito gridare all’emergenza. In realtà, il dato sulle discriminazioni, per quanto comunque grave, va scisso in azioni violente, vessazioni politiche e limitazioni alla libertà di culto.

A guidare la statistica degli attentati violenti contro le comunità cristiane sono, in effetti, i paesi musulmani, molti dei quali in Medio Oriente. Questa regione presenta minoranze cristiane per lo più esigue (tranne che i Copti in Egitto, i Maroniti in Libano e il 10% di popolazione cristiana in Siria) ma storicamente assai radicate. Le comunità cristiane in Medio Oriente contano ancora 14 milioni su una popolazione totale di 350 milioni, ma sembrano seguire la sorte degli ebrei: le minoranze ebraiche nei paesi musulmani sono praticamente scomparse (ad esclusione che in Iran). Negli ultimi anni, i conflitti – tuttora aperti – in Afghanistan e Iraq tra forze occidentali e movimenti che comunque si richiamano all’Islam, hanno esposto continuamente le comunità cristiane all’accusa di essere una quinta colonna dell’Occidente.

Così avviene certamente in Iraq, dove il 2010 ha segnato il picco delle partenze dei cristiani verso Stati Uniti ed Europa, ma anche come rifugiati nei campi profughi in Siria e Giordania. Alcuni hanno trovato rifugio nell’autonoma provincia curda del Nord (dove il presidente Massoud Barzani ha offerto loro protezione fisica ma senza la concessione di alcun aiuto economico).

In altri paesi, soprattutto in Palestina, i cristiani patiscono le stesse discriminazioni economiche e politiche dei loro “connazionali” musulmani: i problemi e i limiti alla mobilità e alle esportazioni imposte dal muro costruito tra West Bank ed Israele. Ciò ha fatto sì che la comunità cristiana palestinese si assottigliasse fino a rappresentare il 2% della popolazione complessiva tra Cisgiordania e Gaza (nel 1950 ne rappresentava ancora il 15%). In effetti, i 3.500 cristiani della Striscia si scontrano simultaneamente con il blocco imposto da Israele e con la mancata tutela della libertà di culto da parte del governo islamico di Hamas. Eppure l’emigrazione non va vista unicamente come un indicatore negativo: i cristiani partono perché, spesso a differenza dei loro connazionali musulmani, possiedono ancora un’alternativa e dei legami preferenziali con i loro correligionari in Europa e negli Stati Uniti. In Arabia Saudita i cristiani sono circa un milione, e subiscono una doppia discriminazione: in quanto minoranza religiosa e in quanto gruppo composto prevalentemente da immigrati. Solo la Siria, con il suo 10% di cristiani e la sua costituzione laica, sembra rappresentare, almeno a prima vista, un esempio di convivenza intercomunitaria nella regione.

Va sottolineato che il contesto politico regionale rende complessivamente difficile e controversa la posizione delle minoranze – cioè di tutte le minoranze. A maggior ragione, i casi egiziano e libanese, dove la presenza cristiana è più forte, sono particolarmente delicati: qui si giocano importanti partite politiche.

Non a caso, il Libano è il paese che ha seguito più da vicino e con i toni più accesi gli eventi egiziani di questi primi giorni del 2011: tutte le più importanti cariche dello Stato si sono affrettate a condannare le violenze interconfessionali, guardando al Presidente Mubarak come garante della stabilità del paese. È infatti evidente che esiste una dimensione regionale del problema, visto che sull’attentato di capodanno aleggia lo spettro di al Qaeda, quantomeno come mandante.

Più ampiamente, se la pista “estera” dovesse essere confermata dalle inchieste in corso – ovvero se Hezbollah, cellule iraniane, o al Qaeda stesse, vi avessero avuto un ruolo diretto – vi sarebbero comunque ripercussioni che vanno oltre l’Egitto. Questo episodio violento sarebbe letto come un tentativo di destabilizzare un tassello cruciale del fronte arabo “moderato”, che comprende certamente l’Arabia Saudita e gli stati arabi del Golfo.

Perfino qualora l’attentatore provenisse dall’area islamica egiziana, quella che gravita intorno ai Fratelli musulmani (usciti pesantemente sconfitti dalla recente prova elettorale per la Shura, cioè il Parlamento egiziano) o più probabilmente alla costellazione di movimenti salafiti, la radicalizzazione del movimento islamico nazionale si inserisce nella più vasta offensiva delle organizzazioni islamiche internazionali. Questo nesso è chiaro tanto alle autorità egiziane quanto a quelle libanesi: queste ultime temono, nella fase delicata della pubblicazione del verdetto Hariri, per la precaria tenuta del loro equilibro interconfessionale. Proprio il caso libanese dimostra in tutta evidenza che la logica dei “comunitarismi” è in primis sposata proprio dalle comunità cristiane che si sentono minacciate dall’esplosione demografica musulmana.

E non va dimenticato che i movimenti fondamentalisti considerano i regimi sunniti come “collaborazionisti”, utilizzando dunque la frattura interconfessionale a fini decisamente politici per scavare un ulteriore solco tra Europa e Stati Uniti, da un lato, e i governi arabi dall’altro.

La posta in gioco non è soltanto la libertà di culto, ma tutte le numerose finalità politiche dei movimenti che ricorrono al terrorismo. In sostanza, non c’è alternativa a un impegno paziente e continuo nel sostenere in ciascun paese arabo quelle forze che si battono per una maggiore democratizzazione interna e per il rispetto, o il reintegro, di quei principi minimi di laicità che soli permettono la convivenza interreligiosa.