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I cento giorni interni di Obama, presidente degli americani

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Durante la conferenza stampa di chiusura del G20 di Londra, Barack Obama ha introdotto la sua risposta ad un giornalista cinese con l’affermazione “Guardi, io sono il presidente degli Stati Uniti…”, per spiegare che avrebbe pensato anzitutto agli interessi dei cittadini americani nell’affrontare la crisi economica. Ciò pur tenendo in debito conto – ha subito aggiunto Obama – gli interessi di lungo termine del suo paese che comunque richiedono un rilancio e un riequilibrio dell’economia mondiale: insomma, realismo lungimirante e interesse nazionale illuminato. In questa costante e sistematica ricerca della sintesi, del giusto mezzo tra emergenza e futuro, sta una chiave per interpretare i primi mesi della nuova amministrazione. Alla sua guida c’è un grande comunicatore che probabilmente non vuole farsi amare ad ogni costo, ma che crede nell’arte della persuasione e ama parlare direttamente all’opinione pubblica; un capo dell’esecutivo che, però, in un contesto economico davvero eccezionale come quello di oggi non può certo accontentare tutti, e non può permettersi neppure di accontentare tutti i suoi elettori.

Di fronte a una crisi sistemica per l’economia americana, il neo-Presidente ha scelto di concentrare inizialmente gli sforzi sulla componente bancaria e finanziaria del problema (tra febbraio e marzo), per frenare il panico ed evitare che il meccanismo del credito andasse in blocco completo. L’obiettivo è sembrato dare una forte iniezione di fiducia, scontando dal principio le inevitabili accuse di voler salvare proprio i maggiori colpevoli del disastro. In parte per compensare questa debolezza intrinseca della sua politica, l’amministrazione ha contemporaneamente lanciato, comunque, una serie di pet projects della campagna elettorale: l’avvio di una riforma sanitaria, investimenti nell’istruzione e (non molti per la verità) nelle energie rinnovabili. In poche parole, quasi tutto e quasi subito, con una linea ad alto rischio.

La scommessa è che l’opinione pubblica stimerà un leader capace di mantenere le promesse anche nelle condizioni più difficili, concedendogli un margine di manovra in più e magari perdonandogli qualche errore per eccesso di zelo. Obama avrà molto bisogno della comprensione e della fiducia degli americani se vorrà gestire senza traumi l’enorme costo dilazionato che sta imponendo al paese: la coperta, infatti, si è naturalmente rivelata corta, promettendo inflazione a breve e poi l’esplosione del debito pubblico nei prossimi anni.

Non si devono qui dimenticare il tono e la sostanza della campagna presidenziale 2008: cambiamento e sobrio entusiasmo, cioè fiducia nella capacità americana di rigenerarsi come società, come economia, come establishment di governo. Coerentemente, Obama ha puntato quasi tutto su una rapida ripresa della fiducia – perfino oltre il calcolo razionale, quasi come atto di fede – quale primo passo essenziale per uscire dalla fase acuta della crisi. Per ora, da questo punto di vista i sondaggi di opinione gli stanno danno ragione (a giudicare dagli altissimi indici di approvazione personale di cui gode) e perfino i mercati finanziari sembrano disposti a quell’atto di fede nello spirito americano.

Fin qui le notizie relativamente buone. Ci sono però i rischi da valutare, a cominciare dalla rinuncia prematura a quell’ipotesi bipartisan su cui tanto si era insistito per superare pienamente l’era Bush. Il pacchetto di stimolo economico varato in febbraio (il più massiccio nella storia americana), combinato alla perseveranza sui progetti più ideologicamente controversi come il greening perfino in tempi di crisi dura, hanno portato alla rottura con moltissimi Repubblicani anche moderati. Cosa più pericolosa, la stessa coalizione che ha portato Obama alla Casa Bianca potrebbe spaccarsi: i Democratici più centristi sono a dir poco preoccupati dalla prospettiva del deficit a oltranza, mentre quasi tutti i membri del Partito di maggioranza mostrano scarsa disciplina quando al Congresso si discute di tagli specifici, cioè rinunce dolorose, per alleviare alcuni squilibri – ad esempio i tagli alle emissioni inquinanti o quelli alle spese per la difesa. A ciò si aggiunge la spinosissima questione di come chiudere il capitolo delle (vere o presunte) torture inflitte ai “nemici non combattenti” dall’amministrazione Bush: Obama ne ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia, incontrando decisamente il favore di una maggioranza di americani, ma ora si tratta di non restare intrappolati in una serie infinita di indagini, commissioni parlamentari e regolamenti di conti che spargerebbero altri veleni ideologici. Peraltro, inchieste approfondite finirebbero quasi certamente per colpire anche molti funzionari a livelli intermedi, creando seri problemi con le burocrazie della CIA e del Pentagono – apparati di cui l’amministrazione ha assoluto bisogno come e quanto Bush. Di nuovo, tra le fila del Partito Democratico si levano voci che contrastano apertamente con la visione pragmatica di Obama per cui il passato andrebbe superato più che rivangato.

In breve, il Congresso che dovrebbe sostenere il “suo” Presidente sembra un grosso problema da gestire più che un vantaggio da sfruttare.

Intanto, Obama ha perso rapidamente anche l’appoggio entusiastico di buona parte dei media, che non resistono alla tentazione di chiedere miracoli a un essere umano privo (a quanto risulta) di poteri soprannaturali. Più legittimamente, molti analisti di area liberal stanno criticando con durezza l’amministrazione per non aver investito a sufficienza nel sostegno all’enorme e crescente schiera dei disoccupati: si fa notare che tutti gli americani, terrorizzati dalla possibilità di restare senza lavoro in qualunque momento, avrebbero diritto a un’iniezione di fiducia paragonabile a quella somministrata ai banchieri e ai manager. In pratica, il populismo soft del Presidente deve assolutamente fare presa su molti strati dell’opinione pubblica al tempo stesso, perché i suoi piani richiedono coalizioni diverse in settori diversi. E non può fare del tutto a meno di lavorare con i professionisti della politica, pur avendoli criticati duramente per lo scarso contatto col paese reale e la visione eccessivamente ideologica.

Qui rischiano insomma di convergere due settori di malcontento: da un lato chi accusa Obama di facile populismo (e dunque di spesa facile), dall’altro chi lo accusa di essere tutto sommato sotto l’influenza delle solite oligarchie (simboleggiate da personaggi come Tim Geithner e Larry Summers) – cioè di non essere abbastanza “nuovo” e non abbastanza…populista.
Barack Obama, dopo cento giorni al potere, dà ancora la sensazione di avere doti personali straordinarie e un carattere di ferro per reggere alle critiche. E’ arrivato il tempo delle verifiche, in cui si cominciano a contare i successi ma gli errori si pagano.