international analysis and commentary

“Guerra dei trent’anni” in Medio Oriente: un’analogia fuorviante

422

La Guerra dei trent’anni, iniziata come un conflitto tra gli stati cattolici e quelli protestanti del Sacro Romano Impero, dilaniò l’Europa centrale tra il 1618 e il 1648. Causò circa otto milioni di morti, in larga parte civili. Molti osservatori dell’odierno Medio Oriente hanno rintracciato analogie con quel lontano passato.

Zbigniew Brzezinski ha notato ad esempio che esistono diverse similitudini “tra ciò che sta avvenendo in Medio Oriente e quanto accadde molti secoli orsono in Europa nel corso della Guerra dei trent’anni, ovvero l’affermazione dell’identificazione religiosa [religious identification] come principale motore dell’azione politica”. Sulla stessa linea si sono espressi decine di studiosi e personaggi pubblici, inclusi Leon Panetta (ex Segretario alla Difesa e capo della CIA) – secondo cui “stiamo assistendo a una sorta di Guerra dei trent’anni” – e Brendan Simms, secondo il quale “la radice della Guerra dei trent’anni, così come i conflitti odierni in Medio Oriente, va rintracciata nell’intolleranza religiosa”.

Ci si interroga poi su come terminò la Guerra dei trent’anni e su come potrebbero cessare quelle in corso in Medio Oriente. Il premio Pulitzer Jack Miles – facendo eco a un’opinione diffusa – ha scritto che “la Pace di Westphalia [1648, che chiuse il conflitto trentennale] ridefinì larga parte della mappa politica dell’Europa. La pace in Medio Oriente potrebbe seguire lo stesso percorso”.

Le considerazioni citate sono riconducibili a un crescente processo di medievalizzazione della regione nel discorso politico-mediatico, cioè la tendenza a giustapporre un presunto Medio Oriente “medievaleggiante” a un Occidente moderno, laico, normativo: una percezione tanto radicata quanto fuorviante.

Contrariamente a quanto sostenuto da Brzezinski e altri, infatti, la Guerra dei trent’anni ebbe poco a che spartire con questioni legate a “identificazioni religiose”. Non si spiegherebbe altrimenti la ragione per la quale, ad esempio, la cattolica Francia sostenne il vittorioso intervento della Svezia protestante, guidata da Gustavo II Adolfo (1594–1632), contro il Sacro Romano Impero e la Lega Cattolica.

Semmai, un parallelismo utile tra la Guerra dei trent’anni e i conflitti “per procura” che stanno lacerando l’odierno Medio Oriente è forse proprio qui: le questioni religiose, da sole, possono spiegare molto poco. Quattro secoli fa la Francia, gli Asburgo d’Austria, i principi tedeschi e altri attori si scontrarono per ragioni molto pratiche. Lo stesso vale per il presente del Medio Oriente, dove ad essere dirimenti sono le questioni economiche, gli effetti di medio e lungo termine del nazionalismo, la competizione geopolitica più legata alla stretta attualità.

In questo senso il rovesciamento del regime di Saddam Hussein da parte di Washington e il non-intervento in Siria sono stati percepiti dall’Arabia Saudita come degli indiretti assist alle strategie iraniane. Negli ultimi cinque anni Riad ha investito un’enorme quantità di risorse per opporsi all’ascesa di qualsiasi governo/partito che, nel mondo arabo, avrebbe potuto rappresentare un’alternativa credibile al “modello saudita”. Questo spiega anche la decisione di appoggiare l’esercito egiziano nel golpe contro l’ex presidente Mohamed Morsi, che ha portato al potere il suo ex ministro della Difesa e capo di stato maggiore Abd al-Fattah al-Sisi. 

È a queste considerazioni, e dunque al riposizionamento dell’influenza iraniana nella regione, che può essere in larga parte ricondotto il protrarsi delle guerre per procura che stanno dilaniando il Medio Oriente.

Al contrario, il presupposto “orientalista” secondo cui ci sia poco da fare se non attendere che la regione recuperi i secoli che la dividono da un Occidente normativo e progressista, tende a semplificare una storia ben più complessa. Al riguardo è sufficiente ricordare che l’Europa di inizio Seicento era alle prese con gli epocali riverberi della Riforma protestante avviata appena un secolo prima. A ciò si aggiunga che i fanatismi che contrapposero cattolici e protestanti non avevano parallelismi nella storia del Mediterraneo orientale.

Per molti secoli, sunniti e sciiti, ma anche cristiani, ebrei e altri gruppi religiosi hanno vissuto nella regione raggiungendo un livello di coesistenza comparativamente superiore a quello registrato in gran parte del resto del mondo. La tesi dell’esistenza di un conflitto tra sunniti e sciiti che dura “da 1400 anni”, sempre più diffusa ai nostri giorni, è in questo senso problematica e tende a non considerare il fatto che l’appartenenza ad una data confessione religiosa è stata per secoli solo uno dei tanti modi (e sovente non il più significativo) adottati dagli esseri umani presenti nella regione per esprimere le loro identità.

Anche il passato a noi più vicino conferma questa tendenza. Si pensi ad esempio che fino al 2003 circa il 40% della popolazione di Baghdad, ovvero un quarto dell’intero Iraq, era composta da persone nate da matrimoni misti tra sunniti e sciiti: gli iracheni li chiamano ancora oggi “Sushis”.

La realtà dei “Sushis” è stata oggi in larga parte sostituita da una visione più prosaica. Essa prefigura – e in molti casi auspica – una “balcanizzazione” della regione. Questo approccio è riconducibile ai primi anni Novanta ed è ben rappresentato da un articolo pubblicato nel 1992 da Bernard Lewis con il titolo “Rethinking the Middle East” (su Foreign Affairs).

Lewis argomentò che molti stati nella regione rappresentano delle creazioni artificiali dell’Occidente (una tesi tanto diffusa quanto semplicistica) e che, tra i più probabili scenari futuri, ci sarebbe stata la possibilità che il Medio Oriente potesse sprofondare in un conflitto permanente – “a chaos of squabbling, feuding, fighting sects, tribes, regions and parties”. Negli anni a seguire diversi studiosi hanno fatto notare che a seguito di questo potenziale caos sarebbe stato più semplice far accettare ai popoli della regione un ordine imposto dall’esterno.

L’attualità sembrerebbe suggerire che Lewis avesse colto nel segno. Eppure la tesi secondo la quale i confini degli stati e il cosiddetto “ordine Sykes-Picot” (il ridisegno geopolitico europeo sulle ceneri dell’Impero Ottomano) rappresentino i maggiori ostacoli alla pace o allo sviluppo della regione è essa stessa semplificatoria. Pressoché tutte le questioni (inclusa l’internazionalizzazione di Gerusalemme) discusse da Sykes e Picot nel 1915-1916 non sono mai state implementate, o non sono più rilevanti da molti decenni. L’accordo Sykes-Picot è stato influente nella misura in cui ha ritardato l’ascesa di un ordine immaginato e plasmato da attori interni alla regione.

Iracheni, siriani, palestinesi e altri popoli non avevano alcun bisogno di tracciare confini che potessero dividere il loro Heimat – concetto tedesco che non fa riferimento a un Paese o a una nazione, bensì a un luogo in cui sono radicate le nostre memorie più profonde. Ciò tuttavia non deve suggerire che le fluide identità locali fossero prive di peculiarità, caratteristiche protonazionali, o che i loro stati rappresentino semplicemente delle creazioni artificiali. Molti degli stati moderni nel Mediterraneo orientale sono infatti radicati in eredità storiche peculiari.

La “nuova Westphalia” auspicata da Miles e altri, così come la riconfigurazione/balcanizzazione dei confini immaginata da Lewis, non porteranno alcun beneficio alla regione. Men che meno ai suoi abitanti. Il parallelismo tra la “Guerra dei trent’anni” in Europa e il Medio Oriente post-“Primavere arabe”, così come la prospettiva di una riconfigurazione dei confini su basi etnocentriche, fanno luce sul punto di vista e il potenziale tornaconto di chi le sostiene. Molto meno sugli interessi e il millenario vissuto di chi continuerà a vivere in quest’area del mondo.