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Gli Stati Uniti contro Al-Qaeda in Yemen: il golpe degli huthi e i dilemmi geopolitici

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La crisi politico-istituzionale dello Yemen sta obbligando gli Stati Uniti a ridefinire interlocutori e tattica di counterterrorism nel Paese per contrastare Al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP). Secondo numerose fonti, Washington avrebbe già aperto un canale informale di dialogo con il movimento degli huthi, gli sciiti zaiditi del nord che, tra la fine di gennaio e gli inizi di febbraio, hanno assunto il pieno controllo politico-militare delle istituzioni yemenite.

Il 22 gennaio, il Presidente ad interim Abdu Rabu Mansur Hadi, il Premier tecnico Khaled Bahah e l’intero governo si sono dimessi dopo che i miliziani sciiti zaiditi avevano assediato, da giorni, il palazzo presidenziale, portando a compimento un colpo di stato che si preannunciava ormai da mesi. Ansarullah, il movimento politico degli huthi, ha così unilateralmente dichiarato sciolto il parlamento, nominando un “comitato rivoluzionario”, organo militare composto prevalentemente da huthi. Le trattative fra i capi politici e tribali non si sono però fermate: l’inviato dell’ONU in Yemen, Jamal Benomar, ha successivamente annunciato la costituzione di un Consiglio Popolare Transitorio, composto da rappresentanti meridionali, femminili, giovanili, che legifererebbe insieme al riconfermato Parlamento (dove predominano gli uomini dell’ex Presidente Ali Abdullah Saleh). Dopo settimane di arresti domiciliari, Hadi si è recato nella città portuale di Aden, che non ha riconosciuto il colpo di stato di Ansarullah, per ritirare le dimissioni e chiedere che i negoziati politici proseguano fuori dalla capitale Sana’a. Tutte le monarchie del Golfo (tranne l’Oman) hanno riaperto le loro ambasciate proprio ad Aden: nei fatti, lo Yemen è già spaccato in due.

Se la presa di Sana’a da parte degli huthi venisse classificata ufficialmente come un golpe, gli aiuti finanziari e militari USA verrebbero bloccati, come parzialmente avvenuto per l’Egitto nel 2013 dopo la presa di potere del generale Abdel Fattah al-Sisi. Ecco perché in questi giorni la prudenza linguistica è massima: la risoluzione 2201, approvata all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (16 febbraio 2015), “deplora”, ma non condanna, le “azioni unilaterali” intraprese dagli huthi. E la Casa Bianca, il Dipartimento di Stato e il Pentagono non hanno finora mai utilizzato l’espressione “colpo di stato”. Di golpe hanno invece parlato sia il Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) che la Lega Araba; il CCG ha inoltre chiesto all’ONU di autorizzare un intervento militare in Yemen, sotto il capitolo settimo della Carta. 

Gli Stati Uniti e Ansarullah hanno ora un obiettivo convergente, ovvero combattere Al-Qaeda nella Penisola Arabica. Da anni, il Pentagono e la CIA portano avanti due campagne aeree parallele in Yemen: gli aerei del Ministero della Difesa partono dal quartier generale USA di Gibuti e necessiterebbero, per colpire, dell’autorizzazione del Presidente yemenita (come dichiarato da Hadi), mentre quelli della Central Intelligence Agency muovono dalla base nel deserto saudita del Rub al-Khali, prevedono procedure operative più snelle e non sono sottoposti a controllo parlamentare. Da quando gli huthi hanno assediato il palazzo presidenziale e Hadi si è dimesso – dunque in assenza di una singola autorità politica legittima e riconosciuta – la CIA ha sferrato almeno sei  nuovi attacchi droni nel Paese (26 e 30 gennaio, 2, 21, 28 febbraio, 2 marzo), concentrati nella regione meridionale di Shabwa, uccidendo uno dei leader di AQAP, Harith bin Ghazi al-Nadhari. Mentre l’ambasciata statunitense è stata provvisoriamente chiusa e gran parte del personale diplomatico e della stessa CIA evacuato (via Oman), reparti speciali del Pentagono rimangono operativi in territorio yemenita, per proseguire le attività di contrasto al terrorismo e addestrare il frammentato esercito regolare, ostaggio di conflitti inter-tribali. Sia gli attacchi dal cielo che le operazioni di terra a sostegno dell’esercito di Sana’a richiedono la continua condivisione di informazioni sensibili fra le autorità locali e quelle statunitensi. Pare che l’intelligence sharing fra gli USA e gli huthi contro AQAP sia partito, tramite intermediari, già nel novembre 2014.

Intanto, la violenza interconfessionale fra gli sciiti zaiditi e gli jihadisti, spesso qaedisti, sta rapidamente aumentando.  Pur di fermare la penetrazione sciita nei loro territori, molti clan sunniti – in perenne lotta con il governo centrale e delusi dal mancato reintegro dei propri comitati popolari anti-qaedisti nell’esercito – stanno stringendo alleanze con AQAP e l’affiliata Ansar al-Sharia. Mareb, dove si snoda la rete elettrica nazionale, ospita la metà delle risorse petrolifere dello Yemen, oltre che il campo gasifero più grande del paese; nel 2012, l’infiltrazione dei qaedisti nella tribù Qayfa di Al-Bayda causò la temporanea presa del capoluogo Rada’a, provocando una spaccatura intra-tribale mai riassorbita.

Proprio in questa regione del Paese vi sarebbe stato il primo esperimento di cooperazione indiretta fra huthi e Stati Uniti: Washington avrebbe fornito appoggio logistico alle forze militari di Ansarullah, impegnandosi inoltre a non colpire dal cielo le aree sotto il controllo dei ribelli sciiti. Le capacità di hybrid warfare dei miliziani huthi, che mescolano sul territorio tattiche convenzionali e non, possono tornare utili a Washington, alla ricerca di un partner locale senza il quale i soli attacchi aerei si rivelano insufficienti. 

L’Arabia Saudita sta nel frattempo incrementando gli aiuti finanziari e militari ai clan sunniti dell’area, nel tentativo di controbilanciare l’espansione sciita. La nascita di nuove istituzioni pro-huthi, il mantenimento del Parlamento egemonizzato dall’élite dei Saleh e la prosecuzione dell’impegno militare statunitense lasciano infatti intravedere l’esistenza di un’intesa sostanziale – al di là del golpe formale – tra il vecchio sistema di potere Saleh-Hadi e l’attuale, confusa fase istituzionale dominata dagli huthi. Sono infatti le sole tribù sunnite del partito Islah (Fratelli Musulmani e salafiti), che avevano guadagnato molto potere negli apparati della transizione, ad aver perso questo round politico.

Tuttavia, la possibile cooperazione anti-AQAP fra statunitensi e movimento huthi pare riservare a Washington più costi che benefici: il movimento settentrionale non ha fin qui esitato a usare la forza contro gli avversari confessionali e/o politici, e il progetto di governo di Ansarullah, sospettato di voler restaurare l’imamato, rimane indefinito. Se nel breve-medio periodo la lotta al jihadismo è un obiettivo tattico convergente fra USA, miliziani zaiditi e perfino l’Arabia Saudita, le parti differiscono sulla visione strategica di lungo raggio, dal momento che la Casa Bianca vorrebbe un governo a Sana’a stabile e possibilmente inclusivo.

Il quadro geopolitico continua quindi a essere molto complesso. Resta ad esempio da chiarire se l’Iran, fin qui percepito come parte del “problema Yemen” e accusato di sostenere finanziariamente e militarmente gli huthi (una delegazione huthi è volata in marzo a Teheran per stringere accordi economici), possa invece divenire parte della soluzione, proprio in un momento cruciale del negoziato sul nucleare di Teheran. In fondo, la cooperazione indiretta fra USA e Iran contro il sedicente Stato Islamico, è già una realtà in Iraq. D’altra parte, qualsiasi ragionamento diplomatico statunitense sullo Yemen, specie con Teheran, non può trascurare l’Arabia Saudita e sottovalutarne le possibili reazioni; soprattutto ora che “l’arco sciita” si sta trasformando in un “semicerchio sciita”, con l’aggiunta dell’instabilità in Bahrein e Yemen, oltre alle roccaforti sciite in Libano, Iraq e Iran. Proprio in quest’ottica, già nel 2009 i sauditi intervennero militarmente sul confine yemenita contro gli huthi.

Lo Yemen, in crisi economica e umanitaria permanente, non può permettersi di perdere gli aiuti  delle istituzioni internazionali, nonché dei generosi alleati a Washington e Riyadh (che però ha bloccato i suoi prestiti ufficiali lo scorso dicembre). Questo dato pragmatico è destinato a pesare molto sulla politica estera yemenita, condizionando le scelte di chiunque comandi a Sana’a. E potrebbe dunque facilitare, con alcune ricalibrazioni, il proseguimento della campagna anti-terrorismo statunitense in Yemen – che resta un’importante questione di sicurezza nazionale per la Casa Bianca.