Mentre la morsa della resistenza armata si stringe attorno alle roccaforti del regime, la frammentazione sociale, politica e militare della Siria rende particolarmente incerto il suo futuro.
La prima incognita è rappresentata dalla capacità delle forze armate di fronteggiare i diversi gruppi combattenti della resistenza. In questo senso, l’impiego nelle ultime settimane di mine navali e il lancio di bidoni di esplosivo dagli elicotteri lascia pensare che l’apparato di sicurezza soffra di una carenza di bombe e munizioni. Resta però cospicuo e compatto l’apparato delle forze armate su cui il regime può ancora contare. È importante soprattutto il dato sulle diserzioni, che in una prima fase del conflitto hanno interessato ufficiali e generali sunniti, ma ora sono sempre più rare. Assad, proprio per evitare un’accelerazione di quella dinamica, negli ultimi mesi ha richiamato tutti i riservisti alawiti (appartenenti cioè al suo stesso gruppo confessionale, pari al 12% della popolazione): sono gli unici elementi considerati affidabili.
Intanto, il quadro militare è contraddittorio: nonostante i ribelli abbiano denunciato la scarsità d’armi a loro disposizione (fatto dovuto anche all’embargo europeo del maggio 2011, rinforzato nel luglio 2012), l’Esercito Siriano Libero (ESL) controlla già alcune città e province nel nord del paese a ridosso del confine turco. Nelle zone ormai “liberate” dal controllo politico del regime, l’ESL ha addirittura istituito figure istituzionali pro tempore volte a tamponare le tentazioni anarchiche tipiche delle fasi di transizione. Parallelamente si è registrato un incremento dell’efficacia dell’azione dei ribelli. Per la prima volta, alcuni missili antiaerei Stinger hanno abbattuto aerei del regime, inibendo la principale prerogativa – anche simbolica e psicologica – e la superiorità strategica del regime, cioè il controllo dei cieli. Inoltre, la presenza sempre più attivo sul terreno delle Jabhat al-Nousra, un fronte islamista radicale indipendente dall’ESL, sta alterando in modo significativo l’equilibrio militare, a tutto svantaggio del regime. Il gruppo islamista ha rivendicato la conquista, seppur parziale, della base militare di Sheick Suleiman così come l’attentato contro il ministero dell’Interno a Damasco avvenuto il 12 dicembre. Nelle ultime settimane, i combattimenti a Damasco si sono estesi fino a riguardare, oltre l’aeroporto (snodo strategico cruciale) anche il centro della città.
Gli scontri armati in atto si configurano sempre più come una vera guerra civile (che ha già provocato oltre 40.000 morti e costretto più di 500.000 siriani a lasciare il paese): sta crescendo chiaramente la frammentazione tra gli attori del conflitto, anche in quanto deliberata strategia del regime, che cerca di trarre vantaggio dall’acuirsi delle spaccature tra le comunità confessionali. Le forze di Assad stanno colpendo le infrastrutture e le abitazioni private delle zone sunnite o dei quartieri occupati dai ribelli, infierendo in particolare sulle zone di Idlib, Hama e Homs. Il regime sta anche fornendo direttamente armi ai civili delle comunità alawite e cristiane (anch’esse sostanzialmente fedeli ad Assad), per difendersi da eventuali attacchi dei ribelli.
A questo si deve aggiungere la recente mobilitazione militare dei curdi siriani, storicamente legati al regime damasceno da un rapporto di patronage in cambio di lealtà politica. Dopo una prima fase di neutralità, i curdi sono ritornati sotto l’egida di Assad, combattendo alcune importanti battaglie con le Jabhat al-Nousra nei pressi di Ras al-‘ain. Nel frattempo, le rivendicazioni di uno stato curdo hanno ricominciato ad echeggiare tra le caotiche voci del conflitto, lasciando intendere che il regime stesso potrebbe aver promesso maggiori forme di autonomia curda in cambio della complicità politica e militare.
Questa duplice linea d’azione segnala il tentativo di rendere quasi impossibile l’avvio di una transizione: la punizione dei sunniti, unita alla disintegrazione materiale dei centri abitati e delle infrastrutture, mira a sfibrare la concreta capacità politica di istituire rapidamente un ordine post-Assad. Si vuole così predisporre il fallimento di chiunque voglia assumersi la responsabilità politica di guidare la futura Siria.
Sul versante dell’opposizione, nonostante la tanto sospirata unità sia stata raggiunta, la “Coalizione Nazionale” guidata dallo sceicco al-Khatib – già riconosciuta dai principali governi occidentali – è pur sempre una coalizione sorta fuori dal territorio siriano e scollegata dall’opposizione militare, che ha già rivendicato una propria legittimità autonoma sul terreno. Pesa anche sulle prospettive di una rinascita nazionale l’assenza di un leader carismatico e riconosciuto da tutti.
Non è infine da sottovalutare l’attuale rafforzamento del nucleo alawita e la loro concentrazione sulla costa, che sta galvanizzando aspirazioni irredentiste. Si vorrebbe cioè dare vita a un possibile “stato alawita”, sulla base di un antico progetto di spartizione territoriale risalente al mandato francese. In questo scenario, la famiglia e l’autorità politica di Assad potrebbero riuscire a salvarsi, determinando però la rottura dell’unità politica del paese. In uno scenario intermedio, gli sforzi in atto per frammentare la società siriana, e le violenze subite da vasti strati della popolazione civile, potrebbero comunque creare le condizioni per duri scontri di potere nella delicatissima fase della ricostruzione statuale.