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Gli errori del thatcherismo e le scelte di Angela Merkel

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Margaret Thatcher è sicuramente stata un gigante della politica e uno dei più importanti primi ministri britannici del secolo scorso. Come molti grandi leader, ha modificato in modo durevole la politica del paese. Si è anche detto che il suo successo dipese da un sistema politico fortemente maggioritario. L’emozione diffusa è quindi comprensibile, come pure il rigurgito di astio di tutti quelli che a sinistra la ricordano come una brutale macellaia.

Meno comprensibile – o forse più affrettato – è invece il rimpianto di chi in Italia, guardando un paese apparentemente incapace di riformarsi, è convinto che a noi sia “mancata la Thatcher”. I benefici indotti dalle riforme thatcheriane nel Regno Unito sono sotto gli occhi di tutti; altrettanto lo sono però i costi sociali, gli inconvenienti di un’economia troppo dipendente dalla finanza e la perdita di gran parte della base industriale. La sua memoria è legata alla famosa affermazione che “non esiste la società, ma solo individui”; un’affermazione difficile da accettare non solo da chi si riconosce nella tradizione socialdemocratica, ma anche da molti liberali. Va detto, per dovere di onestà, che bisogna evitare di giudicarla esclusivamente alla luce delle tesi dei suoi modesti epigoni. Le riforme della Thatcher furono più accorte e pragmatiche di quanto sostengono i suoi detrattori e fu suggerito dalla sua stessa retorica; una qualità politica che manca a molti attuali conservatori.

Chi da noi si sente giustamente orfano di riforme farebbe però bene a volgere gli occhi meno a ovest e più a nord. Due decenni dopo il Regno Unito, era il turno della Germania di essere il “malato d’Europa”. Gerard Schroeder prima, Angela Merkel poi hanno intrapreso un analogo processo riformatore, ma con metodi del tutto diversi e operando in un sistema politico strutturalmente governato da coalizioni. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Oggi la Gran Bretagna è un paese che ha definitivamente voltato le spalle alle sue rigidità, ma vive una profonda crisi d’identità ed è socialmente lacerato e politicamente instabile; la Germania è socialmente più coesa, in pace con se stessa, ha riuscito la riunificazione e ha da tutti i punti di vista un’economia più prospera ed equilibrata di quella britannica. Dipende forse dal fatto che i tedeschi sono antropologicamente diversi? Non credo.

Ancora meno convincente è la tesi di chi sostiene che la Thatcher fu un grande leader mondiale. Raddrizzò molte storture della società britannica, ma non riuscì ad arrestare il declino del suo ruolo nel mondo. Certo riconquistò le Falkland con un’energica impresa bellica che mostrò la sua energia, ma anche i limiti della potenza militare del paese. Certo, contribuì con Reagan a dare il colpo di grazia a un’Unione Sovietica ormai in agonia. Tuttavia il fallimento della sua politica europea, che tra l’altro condusse alla sua caduta, sovrasta ogni altra realizzazione. Contrariamente a De Gaulle, non capì che la perdita dell’Impero lasciava al paese solo la scelta della politica europea. Fu in molti campi più pragmatica della sua reputazione, ma in Europa si lasciò guidare dall’ideologia. Anche la diffusa convinzione che fu l’artefice del mercato unico, è largamente un mito. Certo favorì il processo, ma il suo amore per il libero mercato era inferiore alla sua opposizione ideologica alle istituzioni di Bruxelles. Si oppose strenuamente fino all’agguato che le fu teso al Consiglio Europeo di Milano alla riforma del trattato che era la precondizione per la realizzazione del mercato unico; fu costretta ad accettare con grande riluttanza e non smise mai di pentirsene. In realtà aveva intuito perfettamente che, integrando i mercati, l’Europa si avviava su una china che la conduceva all’unione monetaria; la sua fu una battaglia di retroguardia irrimediabilmente votata alla sconfitta. Non fu la sola a constatare che l’euro nasceva zoppo, ma nei suoi ultimi anni di vita deve aver visto con sgomento che il suo paese è condannato ad auspicare la maggiore integrazione di un continente da cui si sta progressivamente distaccando; proprio lei che nel referendum voluto dai laburisti nel ’75 si era battuta perché la Gran Bretagna restasse nella Comunità. Soprattutto non capì che l’obiettivo politico prioritario del processo d’integrazione era di risolvere definitivamente “la questione tedesca”; il suo provincialismo insulare le impedì di comprendere quanto la Germania si fosse trasformata dopo la tragedia della seconda guerra mondiale anche grazie all’impegno in Europa. Il suo tentativo di impedire la riunificazione fu un patetico sforzo di opporsi al corso della storia che espose solo il suo isolamento. Mitterrand e Andreotti la seguirono per un breve istante, lasciandola però rapidamente con il cerino in mano.

Oggi la Germania è al centro del continente; non è una posizione comoda né per lei né per gli altri paesi, ma la preponderanza tedesca è anche il risultato del rifiuto della Gran Bretagna, sull’onda dell’eredità thatcheriana, d’impegnarsi in Europa. Se oggi abbiamo di nuovo difficoltà nel trattare “la questione tedesca”, non è perché c’è troppa Europa ma perché non ce n’è abbastanza. Tuttavia lo sforzo che la Merkel sta – è lecito dire troppo timidamente – compiendo è quello di educare i suoi concittadini a volere più e non meno Europa. Molti nel continente protestano, vorrebbero altro e di più, ma quasi nessuno sembra disposto ad ascoltare le sirene britanniche.

È sicuramente vero che per realizzare le riforme tanto desiderate anche noi avremmo bisogno di una leadership forte, magari al femminile. Tuttavia, osservando i percorsi paralleli della “massaia sveva” e della “bottegaia di Grantham”, faremmo bene ad auspicare che assomigli più ad Angela che a Margaret.