La crisi in corso nei rapporti tra Giappone e Corea del Sud si inserisce come un pericoloso cuneo nei delicati equilibri dell’Asia orientale e va a complicare la strategia americana del pivot to Asia. Non sembra, in effetti, che questa fiammata di tensioni nazionalistiche, imbevute di antichi rancori, possa interferire in modo determinante sul trend caratterizzato dalla crescita dei rapporti economici e della interdipendenza commerciale e finanziaria nello scacchiere. Tuttavia, essa suggerisce una rimodulazione di alcuni dei più sensibili parametri geopolitici.
Il primo di questi parametri è il rapporto tra la dimensione marittima dell’area e quella continentale, abbracciando sia la sicurezza degli attori regionali sia le loro prospettive di crescita economica. Il fatto stesso che tutte le tensioni che si vanno intrecciando in questi mesi abbiano come oggetto isole contese o il controllo delle risorse dei mari e dei loro fondali indica in modo chiaro come quel rapporto si stia modificando. Torna ad aumentare l’importanza della natura insulare del Giappone e di quella peninsulare della Corea. Ne risulta che la competizione per il controllo del mare e delle sue risorse non è solo il frutto di estemporanee prese di posizione di due “anatre zoppe”, come il presidente sudcoreano Lee Myung-bak (in scadenza di mandato a dicembre) e il premier giapponese Noda Yoshihiko (alla vigilia di elezioni anticipate probabilmente a novembre). Tale natura era stata in qualche modo ignorata o soffocata da altre priorità, che andavano dalla ricostruzione post-bellica alla guerra fredda e che hanno contrassegnato nei decenni passati scelte decisive: la linea della sovranità nazionale tracciata nel 1952 dall’allora presidente sudcoreano Syngman Rhee, e il Trattato del 1965 con cui venivano normalizzati i rapporti tra i due paesi. Ora il parametro classico della dimensione marittima si rifà strada, assieme ad un profilo allo Stato-nazione che la globalizzazione avrebbe dovuto ammorbidire se non cancellare: in altre parole, torna alla ribalta il nazionalismo.
È un nazionalismo che non solo ha la ovvia conseguenza di dare spazio e credibilità a idee e partiti che si muovono in controtendenza rispetto alle grandi correnti dell’economia. Mette anche in crisi progetti politici che non tenevano conto della persistenza di taluni “dati culturali forti” come la difficoltà di comunicazione tra coreani e giapponesi. A sua volta, questa difficoltà si ripercuote negativamente su uno dei capisaldi della politica asiatica di Obama, vale a dire il coordinamento (anche in chiave militare) tra Seul e Tokyo. Già sono saltati gli accordi per lo scambio di informazioni tra i due paesi allo scopo di controllare le mosse nordcoreane; ma quello che più conta è che Washington, pur offrendo la sua mediazione nella disputa per le Dokdo-Takeshima, rivela di avere strumenti spuntati rispetto a quelli che le consentirono di dettare i termini del Trattato del 1965. Né va sottovalutata l’eventualità che si crei una oggettiva concordanza tra Cina, Russia e Corea del Sud, tutti paesi alle prese con contenziosi territoriali col Giappone all’apparenza insanabili. E, se le tensioni persistessero o crescessero di tono, dalle concordanze contingenti si potrebbe passare a qualcosa di più solido, in grado di influire pesantemente anche sulle scelte strategiche di lungo periodo di Cina e Stati Uniti.
L’Asia orientale come sfera marittima riaffiora in queste scelte. Da un lato infatti la Cina si è vista costretta, per gestire il suo ritrovato ruolo di grande potenza, a derogare alla tradizionale prospettiva tutta terrestre e continentale (che nei passati decenni ha fatto dei confini con l’India, la Russia e il Vietnam i principali punti di frizione), per proiettarsi verso il mare. La spinta in questa direzione, conseguenza di un salto di qualità sul piano della gestione globale delle relazioni internazionali, risente della novità della situazione e presenta per Pechino incognite e trabocchetti. Una sorta di caso di scuola è il rapporto con il blocco dell’ASEAN. Esso ha proceduto, attraverso la charm diplomacy, in un modo funzionale alle esigenze di entrambe le parti, con accordi che prefiguravano sempre più estese aree di libero scambio, finché si è mosso lungo i consueti canali commerciali. L’accresciuto interesse verso il mare ha cambiato la situazione: la Cina pretende ora di risolvere i contenziosi territoriali (in particolare intorno alle Spratly e alla Paracel) sul piano bilaterale. Rifiuta cioè l’approccio multilaterale richiesto dalle controparti più interessate (come Vietnam e Filippine), intervenendo con modifiche unilaterali dello status quo (costruzione di una guarnigione militare a Shansha), boicottando il “codice di Condotta” che dovrebbe venire elaborato come precondizione del negoziato, e interferendo con palesi pressioni su alcuni membri dell’ASEAN (come avvenuto all’ultimo vertice dell’associazione). Il risultato però potrebbe essere (e già ce ne sono i prodromi) una polarizzazione dell’ASEAN sul piano politico-militare tra filocinesi e filoamericani, con questi ultimi pronti a fare da sponda per una sempre più massiccia e permanente presenza della flotta degli Stati Uniti: esattamente quello a cui Pechino più vorrebbe opporsi.
Anche nei rapporti col Giappone – a parte il lineare e mai contestato intensificarsi delle relazioni economiche – la Cina sembra giocare col fuoco. Le reciproche recriminazioni sulle Senkaku-Diaoyu sono condite di retorica che i governi sia di Pechino sia di Tokyo, almeno fino al divampare delle proteste antinipponiche in tutta la Cina degli ultimi giorni, sono sembrati in grado di manipolare con una certa avvedutezza. Ad esempio è stato notato che gli attivisti antigiapponesi che sono sbarcati il mese scorso nell’arcipelago conteso provenivano da Hong Kong (cioè non dalla madrepatria) e le critiche cinesi alla nazionalizzazione decisa da Noda non si sono tradotte in ritorsioni economiche come in passato (lo stop all’export di “minerali rari” nel 2010). Anche l’acquisto delle isole da parte del governo giapponese è stato una scelta obbligata dopo il tentativo della municipalità di Tokyo di appropriarsene. Inoltre Noda ha deciso che non riattiverà il faro, mostrando così di voler evitare che una imbarcazione nipponica, sia pure un peschereccio in difficoltà, vi faccia scalo.
D’altro canto, è vero che il nazionalismo in Giappone si accompagna alla tentazione di modificare la Costituzione pacifista, di riciclare le Forze di autodifesa in “normali” forze armate, di accogliere le richieste americane di assumersi maggiori responsabilità (militari) a livello regionale. Senza contare che il Giappone ha raggiunto quel grado di sviluppo nucleare che permetterebbe con estrema facilità di passare dal civile al militare. Insomma, una Cina che a Tokyo fosse percepita come potenzialmente aggressiva potrebbe trasformare il Giappone in una potenza a 360 gradi (e non più solo economica), cioè proprio quanto di peggio a Pechino si può ipotizzare.
A differenza della Cina, gli Stati Uniti navigano – fisicamente e in senso figurato – lungo rotte ampiamente sperimentate. A seconda di come la si guarda, la strategia americana punta a mantenere la stabilità nel principale crocevia dei commerci internazionali o a contenere l’influenza di Pechino e la crescita della sua potenza navale. In ogni caso è dal mare che nascono i problemi con la Cina. L’ultima visita di Hillary Clinton a Pechino (5 settembre) ne ha indicato l’ampiezza. Il contrasto c’è e non si vede come arginarlo; occorre rispetto reciproco e comprensione di quali siano gli interessi vitali della controparte, ha ricordato alla Clinton il suo collega cinese Yang Jiechi. Considerando gli ultimi sviluppi in Medio Oriente, dove gli Stati Uniti hanno bisogno dell’appoggio cinese, è possibile che la Clinton abbia recepito il messaggio. Più facile, urgente e conveniente intendersi su Siria, Egitto o Iran piuttosto che sul Mar Cinese meridionale o su quello orientale.