international analysis and commentary

Europa tedesca – o niente Europa

175

In memoria di Silvio Fagiolo, ripubblichiamo anche uno degli articoli scritti da Silvio per Aspenia online.

La Germania coglie la crisi economica e finanziaria per congedarsi dall’Europa? Oppure per imporre una propria versione del processo di integrazione distante da quella che si è venuta fin qui costruendo? Almeno dalla riunificazione tedesca l’interrogativo si affaccia ad ogni tornante del progetto comunitario. Reso più assillante dalla evoluzione del sistema politico nazionale, dalla ristrutturazione dell’economia tedesca, dal cambiamento generazionale nella leadership. Il trasferimento della capitale simboleggia in qualche modo tutto ciò: a sospetti e timori fa da scenario proprio Berlino, sintesi di collera e fierezza, nostalgia ed esultanza, memoria di due dittature.

Si è sempre tentato di misurare la Germania con il metro del suo passato. Si prepara un suo  terzo tradimento dell’Europa, dopo i due che nel secolo trascorso la avevano vista tentare la scalata al cielo? Già non fu facile per i governanti di Bonn convincere i propri partner e vicini che la Germania si era liberata dei suoi demoni più oscuri. Sembra ora altrettanto difficile convincerli che la Germania non guarda all’Europa allo stesso modo di ieri, nel contesto di una inedita frammentazione del suo quadro politico. Un partito con basi nazionali a sinistra dei socialdemocratici (die Linke) condiziona la sinistra moderata, che in alternativa ai cristianodemocratici o in coalizione con essi aveva sospinto la Germania verso orizzonti sempre più avanzati sul cammino della costruzione europea. Alla sinistra della SPD non c’è solo un partito, custode di recriminazioni ed interessi dei più deboli, che intende sfruttare il malanimo di coloro che sono rimasti indietro nel passaggio alla democrazia ed al mercato. Ora  quel partito cerca anche di sottrarre alla socialdemocrazia parole d’ordine, tradizioni, gran parte del lessico che era stato la sua cifra identitaria per un secolo e mezzo. Le due grandi chiese che avevano guidato la Germania in tutti i passaggi decisivi non possono più contare su seguaci incondizionati raccolti, rispettivamente, intorno alla religione ed al sindacato. La società tedesca è divenuta scettica dell’ una e dell’ altro. I tedeschi non sono certo immuni dalle incursioni dell’individualismo liberale, da preferenze molto personali sempre meno prevedibili e condizionate. Il partito dei verdi, in ascesa ovunque, interpreta meglio di ogni altro questo stato d’animo. La leadership è più attenta agli umori del proprio elettorato, ne teme le insicurezze, non imporrebbe di attraversare un confine se non sicura di essere seguita. Così non era stato per le grandi scelte strategiche del dopoguerra, dall’ancoraggio occidentale all’apertura verso l’Unione Sovietica,  portate avanti dai governi nonostante esse fossero profondamente divisive.

 La paura di trovarsi tra le mani una moneta inaffidabile è oggi l’incubo di un paese che invecchia e teme per il proprio futuro. Più forse di quella Germania di Weimar che, come racconta in pagine indimenticabili Elias Canetti, dall’inflazione si vide privata della propria identità. D’altro canto l’economia tedesca è proiettata sul mondo non meno che sull’Europa. Non può per salvare la coesione europea snaturare la struttura del suo sistema produttivo, ribaltare il rapporto consumi-investimenti, vanificare la funzione dell’euro come ancillare rispetto alla vitalità del suo sistema. Oggi non si tratta di modificare l’Europa per salvare l’euro quanto di  rifondare l’euro per salvare l’Europa. A questo si accompagnano gli sforzi per colmare il fossato che ancora affligge l’unità nazionale, la reinvenzione di Berlino, l’insolito impegno in guerre per le libertà altrui. Né è del tutto assente la tentazione di chiudersi in se stessi, di rimuovere le lezioni del passato, di compiacersi di un orgoglio nazionale non immotivato. Cioè la tentazione di non correre rischi – vedi  la recente sentenza della Corte costituzionale che indica nel Trattato di Lisbona un limite al processo di integrazione – con svolte politiche ed economiche  internazionali troppo innovative.

Dunque si salva l’Europa, nell’ottica di Berlino, solo rinnovando il covenant intorno alla moneta unica. Nei termini di Clausewitz, la grammatica dell’euro non è fine a se stessa, ma ha invece come unica logica conseguente l’Europa. Solo quando l’Euro è apparso in pericolo la Cancelliera Merkel è andata oltre la stessa linea di consenso dei propri cittadini. Ma lo ha fatto nel nome di una “Europa tedesca” che eviti al progetto di essere travolto dalla instabilità economica e monetaria, di essere raggiunto da fantasmi sempre in agguato. Certo la Germania può anche giovarsi di un euro debole, mentre la sua economia esportatrice non trarrebbe vantaggio da un mercato europeo che tornasse a frammentarsi. Ma la stabilità monetaria è superiore, nella sua scala di valori, alla stessa unificazione europea, e comunque ne è la condizione imprescindibile. La Germania non si sottrae, accettando di esporsi con la solidarietà del proprio sistema economico e politico, al ruolo di “federatore”, come lo fu la Prussia nel secolo Diciannovesimo. Ma lo fa questa volta come un paese che ha lasciato alle spalle una strategia rieducativa basata sull’obbligo di aver sempre presente il male di cui era stato capace. Del resto, della palingenesi tedesca è parte lo stesso mito della stabilità, non  riconducibile all’egoismo del denaro. Il mito racchiude in sé, invece, una disillusione, una garanzia contro tentazioni autodistruttive in favore di una sobria preferenza per una valuta che sia anche garanzia di ordine e democrazia. Una Germania sempre più decisa, nonostante la sponda francese, a progettare un futuro secondo i propri valori ed i propri interessi, entrare nel mondo di domani scendendo finalmente dal treno della storia. Kohl fu a suo tempo disponibile ad un salto nel buio: tale era l’unione economica e monetaria in assenza di precedenti storici tra paesi così eterogenei. Ne andava del recupero dell’unità nazionale. La Merkel non può più farlo. Vedremo quale compromesso uscirà dai negoziati in corso circa le solidarietà e le responsabilità intorno all’euro. Quali saranno le convergenze in materia di bilanci, sorveglianza, sanzioni, modifiche costituzionali, riforma della finanza internazionale, per alleviare la solitudine di una moneta priva dello scudo della statualità. Può darsi che occorra restringerne il perimetro geografico e la partecipazione al cuore delle istituzioni (diritto di voto in Consiglio), o che l’uscita dei paesi non virtuosi si riveli indispensabile. Sarà  di ausilio la flessibilità che il Trattato di Lisbona concede nel rimodellare l’Unione senza ripercorrere il calvario della sua revisione. Ma o si fa una Europa “tedesca” o non si fa nessuna Europa. Questo il messaggio di Berlino.

Further reading
Moneta in crisi, leader lenti e divisi: l’Europa che fa paura all’America, Marta Dassù, Corriere della Sera, 24 maggio 2010
Un’Europa forte per Obama è utile – intervista a Marta Dassù, l’Unità, 27 maggio 2010
Indirizzo di saluto del Presidente Napolitano alla Joint Leadership Meeting presieduta dalla Speaker Nancy Pelosi, Washington, 26 maggio 2010