Nel dibattito sulle insufficienze dell’Unione Europea ricorre una domanda a prima vista relativamente semplice: cosa deve fare l’Europa per rispondere alle esigenze dei cittadini senza interferire con i diritti degli Stati? O piuttosto, cosa non deve fare? Il paradosso, ma non tanto, è che la discussione è promossa con particolare forza dai due estremi dello schieramento: i federalisti e gli euroscettici. Ovviamente i primi si preoccupano soprattutto di cosa l’Europa dovrebbe fare di più, gli altri di cosa dovrebbe fare di meno.
Il problema indubbiamente esiste ed è stato affrontato anche nel trattato di Lisbona con l’introduzione del principio della sussidiarietà, accompagnato da procedure destinate ad accompagnarne il controllo; disposizioni in verità abbastanza farraginose che non sembrano aver risolto la questione. Il risultato è che l’Europa è accusata allo stesso tempo d’impotenza e di eccessiva intrusione nella vita dei cittadini. La questione è di attualità anche perché, in caso di vittoria dei conservatori alle prossime elezioni, il Regno Unito chiederà di rinegoziare le condizioni della sua appartenenza all’Unione. L’eventuale piattaforma negoziale ancora non è chiara, ma includerà sicuramente una serie di materie in cui l’Europa dovrebbe fare meno; oppure, più probabilmente una richiesta di specifiche esenzioni.
Questioni di principio e poteri reali
Ci troviamo in presenza di uno di quei principi in apparenza semplici e quindi immediatamente popolari – l’UE deve concentrarsi solo ciò che sa fare meglio degli Stati – ma che alla prova dei fatti si rivelano di assai ardua applicazione. Un esempio di quanto tale principio possa essere fonte di demagogia è nella celebre affermazione dell’allora Presidente José Manuel Durão Barroso: less is more. Il risultato fu che la Commissione cessò ogni attività legislativa e l’Europa si trovò con una regolazione finanziaria inadeguata al momento dello scoppio della crisi economica.
Una prima difficoltà concettuale deriva dalla distinzione fra competenze e poteri. Negli ultimi decenni, l’UE ha allargato la lista delle materie di cui può occuparsi a praticamente tutto lo scibile umano. Tuttavia ciò non vuol dire che, occupandosene, abbia anche concretamente il potere di intervenire o di emanare norme vincolanti. Per esempio, i governi discutono di educazione e di cultura, ma i poteri in questi campi sono interamente nelle mani delle autorità nazionali. Il Parlamento Europeo può votare una risoluzione sull’aborto, che però non avrà alcun effetto pratico. I giuristi e gli addetti ai lavori lo sanno, ma l’opinione pubblica è comprensibilmente confusa.
Un ragionamento razionale deve quindi concentrarsi sui poteri perché in fin dei conti sono loro all’origine della confusione e della diffusa insoddisfazione. I federalisti sostengono che se avessimo una costituzione federale il problema sarebbe automaticamente risolto. È vero solo in parte; sarebbe più chiaro, ma non risolto. La verità è che i criteri utili per stabilire la distribuzione dei poteri fra i vari livelli di governo non sono definibili a priori, ma il risultato di un compromesso politico mutevole nel tempo. Che la ripartizione dei poteri sia un fatto squisitamente politico è vero per qualunque sistema istituzionale: è ancora più vero per l’Europa che è in parte federale e in parte intergovernativa e dove la natura delle istituzioni è determinata dalle politiche che si vogliono perseguire. Un criterio di valutazione importante deriva da come, a norma di trattato, sono esercitati i poteri attribuiti all’Unione.
Una prima distinzione è quella fra le materie su cui si decide a maggioranza e quelle che invece richiedono l’unanimità; è un fatto che per queste ultime le decisioni effettivamente prese sono rare e spesso di scarsa rilevanza. I due casi classici sono quello della politica estera e di difesa, e quello della fiscalità. Per quanto riguarda quest’ultima, i risultati si sono limitati a una (parziale) armonizzazione delle imposte indirette resa necessaria dalle esigenze del mercato unico. La fiscalità è addirittura il caso emblematico che suscita passioni contrastanti sia dei partigiani del più, sia di quelli del meno.
Lo scarso peso dell’Europa nel mondo è in testa ai mugugni dell’opinione pubblica. La politica estera e la difesa rientrano quindi nei casi in cui, almeno in teoria, i partigiani del più dovrebbero avere concettualmente la meglio. Invece i progressi e la volontà di progredire sono molto modesti. Bisogna anche dire che chi invoca più Europa spesso non si cura di trarne le conseguenze logiche. Per esempio, chi in Francia tuona contro l’assenza dell’Europa negli affari internazionali è spesso anche contrario a che il Paese rinunci al seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Molti vorrebbero più Europa nella difesa, ma la cosa va di pari passo con il generale desiderio di diminuire le spese a essa destinate.
Un caso speciale è quello del funzionamento dell’unione economica e monetaria. C’è ormai consenso sul difetto d’origine del tratto di Maastricht che ha centralizzato la politica monetaria lasciando quella economica nelle mani degli Stati con un doppio risultato perverso: l’Unione non aveva strumenti adeguati per reagire alla crisi ed è poi stata obbligata a introdurre vincoli sempre più pervasivi alle politiche fiscali nazionali che suscitano legittime preoccupazioni per i diritti democratici dei Parlamenti nazionali. I federalisti come Giuliano Amato hanno opportunamente notato che, se fossimo stati una federazione, i maggiori poteri e gli strumenti disponibili al centro avrebbero permesso anche una più grande flessibilità per la periferia. In America gli importanti trasferimenti effettuati attraverso il bilancio federale sono la contropartita di una più grande libertà in materia di aiuti di Stato e politica fiscale; in Europa questa più grande libertà avvantaggerebbe i Paesi più ricchi. Non siamo una federazione e progredire verso quella che comunemente si chiama fiscal union non è semplice. È un tema molto complesso, centrale nell’attuale dibattito europeo, che richiederebbe una trattazione a parte e approfondita. In questa sede, vale la pena di soffermarsi sulle numerose materie economiche e sociali su cui l’UE è massicciamente intervenuta sin dalla sua creazione.
È su queste che si concentra gran parte della polemica dei partigiani del meno, ma in alcuni casi anche di quelli del più. Questi ultimi hanno buon gioco nel suggerire una maggiore centralizzazione dei poteri di controllo e regolazione di alcuni grandi settori dell’economia. È stata parzialmente realizzata per il sistema bancario, in certa misura anche per la finanza, e ci sono buone ragioni per andare nella stessa direzione per l’energia e le telecomunicazioni. I partigiani del meno si dilettano invece in una serie di storie d’orrore per spiegare come l’Europa interviene senza ragione fin nei più infimi dettagli della nostra vita quotidiana. Il primo, e più ovvio, presunto colpevole è la politica agricola comune (PAC). Può sembrare aberrante che l’Europa definisca le caratteristiche delle mele o dei cetrioli. Chi s’indigna dovrebbe tuttavia ricordare che questo apparente furore regolatorio è molto spesso solo il risultato di una politica fortemente dirigista; se decido di sostenere il prezzo delle mele che produciamo, devo anche sapere con una certa precisione cos’è una mela degna di tale privilegio. Ciò che è in discussione non è quindi la legislazione sulle caratteristiche dei prodotti, ma il carattere dirigista e protezionista della politica agricola; se vogliamo evitare che le mele siano regolate, dobbiamo rinunciare a proteggerle.
Più complessa è la logica che sostiene le disposizioni che regolano il mercato interno dei prodotti. Esse si basano su due principi: il mutuo riconoscimento delle regole nazionali e l’armonizzazione. Il primo si applica quando non sono in gioco interessi pubblici essenziali come la sicurezza, la salute, la protezione dell’ambiente e dei consumatori. Il secondo negli altri casi. In apparenza il mutuo riconoscimento dovrebbe essere poco intrusivo e quindi preferito dai partigiani del meno. Alla prova dei fatti, non è stato sempre così. La Corte di Giustizia ordinò ai tedeschi di non opporsi all’importazione di birra che non corrispondeva ai tradizionali e sacri principi di purezza, e agli italiani di accettare nei supermercati pasta non prodotta con grano duro perché nei due casi non vi era alcun pericolo per la salute dei consumatori; molti in Italia e Germania insorsero contro l’indebita ingerenza e il rischio mortale per antiche tradizioni alimentari. Un altro problema del mutuo riconoscimento è che crea incertezza giuridica con il rischio di contenziosi presso i tribunali nazionali e la Corte di Giustizia. Molte imprese quindi, pur lamentandosi del carattere intrusivo dell’armonizzazione europea, la preferiscono perché offre maggiori certezze.
Perché armonizzare è controverso
L’armonizzazione è un tema molto complesso e fonte di miti e disinformazione quasi pari a quelli che affliggono la politica agricola. È necessario valutare due aspetti: la procedura e la sostanza.
Un aspetto poco conosciuto dell’attività dell’UE è che non legifera direttamente, ma attraverso direttive che devono poi essere tradotte in legislazione nazionale. I cittadini e le imprese non conoscono quindi la direttiva europea, ma la legge nazionale che ne deriva. Se la direttiva si limita ad alcuni principi, le leggi dei singoli Paesi possono essere fonte di distorsioni anche importanti. Se invece è precisa e dettagliata, i parlamenti nazionali si sentono esautorati. La pratica privilegia la certezza del diritto e quindi le direttive tendono a essere piuttosto dettagliate.
L’altro aspetto rilevante è che le direttive di armonizzazione si appoggiano in genere su standard e norme industriali. Fin dall’inizio della rivoluzione industriale, l’Europa ha sviluppato un sistema di standard pubblici o semi-pubblici; i due Paesi più attivi e influenti sono stati la Germania e il Regno Unito. Quando l’Unione Europea si è avviata con decisione verso la creazione del mercato unico, ha ereditato questa cultura sforzandosi di renderla comune. Gli standard sono indispensabili nell’economia moderna. Non siamo tutti ingegneri e quando compriamo un prodotto abbiamo bisogno di ragionevole sicurezza che esso corrisponda a certe caratteristiche di affidabilità e sicurezza. Il sistema non è in genere contestato, ma è fonte di molti miti. Pochi sanno che in realtà la maggior parte degli standard, sviluppati da organismi semi-pubblici ma autonomi, non sono obbligatori; le direttive europee si limitano a fornir loro protezione giuridica. Per esempio, l’Europa non ha mai effettivamente legiferato sulla dimensione dei preservativi, che resta definita in modo autonomo. C’è tuttavia una differenza importante con gli Stati Uniti, dove gli standard sono raramente sviluppati a livello centrale, ma derivano dall’attività delle imprese e poi devono imporsi sul mercato; anche quando sono obbligatori, gli standard americani non sono necessariamente decisi a livello federale. La differenza è oggetto di un acceso dibattito ed è uno degli ostacoli da superare nel negoziato transatlantico. I difensori del metodo americano sostengono che la pratica europea è dirigista e non favorisce l’innovazione; c’è del vero, perché cambiare uno standard europeo richiede tempo e procedure a volte complicate. I partigiani del sistema europeo rispondono che quello americano può favorire la frammentazione del mercato (tipico il caso della telefonia mobile).
Quando invece uno standard s’impone, rischia di creare una posizione dominante; pericolo reso più importante dal fatto che molti standard incorporano brevetti, in America difesi con più rigore che in Europa. Quando gli standard sono obbligatori, il sistema europeo è più equo. Una norma sviluppata e resa obbligatoria in California ha probabilità d’imporsi anche negli Stati vicini indipendentemente dalla loro volontà. Anche in Europa la voce della Germania avrà probabilmente un’influenza preponderante, ma il Portogallo sarà seduto intorno al tavolo e potrà far valere il suo punto di vista. L’opinione dominante in Europa è che il sistema funziona bene; la prova è che gli standard europei sono più facilmente adottati dai Paesi emergenti, ciò che porta gli americani ad accusarci di “imperialismo delle regole”.
Malgrado numerosi malintesi, finché le regole europee riguardavano l’agricoltura e il mercato interno, era relativamente semplice definire le ragioni che giustificavano un intervento da parte dell’Unione. La situazione si è complicata quando l’Europa ha cominciato a legiferare in nuovi settori, come la protezione dell’ambiente della salute e dei consumatori o la politica sociale. Questi obiettivi erano già presenti nella legislazione sul mercato interno; in realtà, come si è visto, la protezione di interessi pubblici costituiva la principale motivazione per procedere a una armonizzazione. Tuttavia, a partire dagli anni Novanta, l’Unione ha cominciato a legiferare in questi campi per ragioni non necessariamente legate al funzionamento del mercato, ma perché l’interesse comune per il perseguimento di una migliore protezione sociale e ambientale era considerato valido in sé. Fu una scelta politica che del resto rifletteva una diffusa richiesta nell’opinione pubblica. Tuttavia è anche diventato più difficile individuare criteri certi per giustificare la necessità di un’azione comune; paradossalmente l’opinione pubblica e parte delle forze politiche sembravano chiedere più Europa proprio in campi dove era meno agevole determinare le frontiere fra i due livelli di governo. La legislazione comune si è così sviluppata in modo importante, ma a volte basata su criteri poco comprensibili. Mentre è facilmente dimostrabile che gli interventi destinati a combattere il riscaldamento climatico o la proibizione di prodotti pericolosi per l’uomo e per l’ambiente devono necessariamente essere comuni, è più difficile capire perché l’Europa debba regolamentare la caccia o la qualità delle acque destinate alla balneazione. La semplice giustificazione che gli uccelli migrano attraverso le frontiere e i turisti scelgono le spiagge di tutta Europa non sembra francamente sufficiente. Gli interventi sulla caccia, apparentemente popolari fra la maggioranza della popolazione, hanno prodotto in alcune regioni una viva reazione di rigetto contro l’intrusione dell’Europa ed ebbero un’influenza marginale ma non insignificante sul risultato del referendum francese sulla Costituzione europea. Mentre la difesa dell’ambiente è facilmente accettata come interesse comune, le sensibilità e le priorità differiscono ancora molto da Paese a Paese. Mentre per un danese la diminuzione delle emissioni di CO2 è un obiettivo prioritario che giustifica una forte centralizzazione, per un polacco l’imposizione di una diminuzione del consumo di carbone, è percepito come un vincolo alla competitività del Paese. Si dirà che è un problema normale che deve essere risolto come sempre nel negoziato politico. Ciò è sicuramente giusto; tuttavia ho scelto deliberatamente un Paese in genere freddo verso l’idea di più Europa e uno in genere più disponibile, per mostrare che una disputa di natura essenzialmente politica può facilmente diventare una discussione sui limiti dell’azione dell’Unione.
Politiche, sovranità e interessi concreti
La situazione è ancora più delicata quando si parla di politica sociale. Tutti i Paesi dell’Unione condividono una cosa che si chiama “modello sociale europeo”, i cui principi sono consacrati nel trattato di Lisbona sotto il nome di “economia sociale di mercato”. Tuttavia in ogni Paese questi principi sono concretamente declinati in modo diverso; differenti sono i livelli dei salari, della protezione sociale, le modalità della contrattazione, le priorità in materia di sicurezza sociale. È quindi possibile solo un’armonizzazione minima; anche questa è però percepita (è il caso della Gran Bretagna per l’orario di lavoro) come un’indebita ingerenza. Da quando sono entrati a far parte dell’Unione i Paesi ex-comunisti dell’Europa centrale e orientale, è emersa anche una discussione sul dumping sociale; fenomeno che dovrebbe essere per definizione estraneo al diritto europeo. Il problema, anche a causa di alcune maldestre sentenze della Corte di Giustizia, infiamma gli animi ed è stato consacrato nella sindrome “dell’idraulico polacco” che occupò la scena nella campagna del referendum francese del 2005 sulla Costituzione europea. Anche in questo caso, il problema è di natura politica; tuttavia quando la Gran Bretagna invoca il diritto di limitare l’accesso dei cittadini comunitari ad alcune prestazioni sociali, ciò che per essa è un problema di sovranità per i rumeni diventa una delle ragioni essenziali della loro appartenenza all’Unione.
Quando l’intreccio fra problemi di sovranità e interessi concreti diventa inestricabile, si può ricorrere alle cosiddette “cooperazioni rafforzate” o a deroghe, come quelle di cui gode la Gran Bretagna. Ci sono tuttavia dei limiti invalicabili se non si vuole compromettere l’integrità del mercato comune. Ciò che precede dovrebbe dimostrare un punto centrale: nella discussione fra ciò che l’Europa dovrebbe fare o non fare, è impossibile separare considerazioni sulla distribuzione ottimale delle competenze fra vari livelli di governo dai concreti interessi politici dei Paesi partecipanti; con la complicazione che i fautori della maggiore o minore centralizzazione non sono sempre quelli che potremmo a priori immaginare. Con questo, non si può evidentemente negare che in molti casi e in molti settori ci siano fenomeni di furore regolatorio o di deriva burocratica. A volte la critica non è rivolta all’intervento in sé, ma alla burocrazia che genera. Può capitare che l’eccesso di burocrazia serva semplicemente a mascherare la mancanza di chiarezza del compromesso politico a monte; le leggi “scritte male” sono proprie di tutti gli ordinamenti. Ciò non toglie che è interesse di tutti che gli eccessi siano corretti; lo chiede l’opinione pubblica, la ragione e anche la necessità di rendere l’Europa più competitiva. Tuttavia per avere successo, l’operazione richiede che si rinunci all’accetta dell’ideologia per privilegiare il bisturi del buon senso.