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Europa: la governance economica alla prova

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È interessante comparare come Europa e Stati Uniti stiano guardando alla situazione economica complessiva. Negli Stati Uniti, la preoccupazione fondamentale riguarda la debolezza della ripresa; la frustrazione generata dall’elevato livello di disoccupazione sta determinando timori probabilmente esagerati su un possibile ritorno in recessione. In Europa, al contrario, si registra un pragmatico livello di soddisfazione per il fatto che la ripresa economica sembra consolidata. Tutti sono consapevoli del fatto che la crescita è destinata a decelerare rispetto al ritmo elevato del secondo trimestre di quest’anno, ma pochi temono davvero che l’economia possa ricadere in recessione. Forse perché siamo abituati a tassi di crescita modesti, è più facile accettare il ritmo debole dell’attuale ripresa – complice il fatto che la disoccupazione non è aumentata tanto quanto negli Stati Uniti.

L’Europa è quindi meno preoccupata di quanto siano gli Stati Uniti della sostenibilità della ripresa; ma deve ancora fare i conti con tensioni persistenti sui mercati finanziari e su quelli del debito pubblico. Queste due fonti di volatilità sono strettamente correlate: il rischio che alcuni governi debbano accollarsi perdite del settore bancario, aumenta l’avversione al rischio per alcuni titoli del debito pubblico. Il caso recente più chiaro è quello dell’Irlanda. Siccome gli istituti bancari sono tra i più importanti detentori di titoli del debito pubblico, i timori di possibile insolvenza da parte di alcuni Stati sovrani si traducono in ulteriore preoccupazione sulla solidità del sistema finanziario nel suo insieme.

La riforma della governance economica dell’eurozona è urgente per questa ragione: è un passo essenziale per rassicurare i mercati che i governi europei afflitti da una debolezza cronica dei conti pubblici saranno in grado di mettersi su un sentiero sostenibile. La BCE, la Commissione Europea e i governi nazionali ne sono ben consapevoli – il ricordo traumatico della prima settimana di maggio, culminata nei negoziati frenetici del weekend dell’8 e 9 maggio è ancora fresco. La Commissione Europea ha già presentato da qualche tempo raccomandazioni dettagliate, e la task force presieduta da Herman Van Rompuy sta lavorando febbrilmente sul tema.

Il Presidente della BCE Trichet, parlando al Parlamento Europeo il 27 settembre, ha lanciato un messaggio chiaro: è necessaria una riforma fondamentale delle regole di governance, al punto che sarebbe desiderabile superare i trattati esistenti per assicurarsi maggiori gradi di libertà – ma Trichet stesso riconosce che questa non è una ipotesi realistica.

La direzione in cui ci si sta muovendo include un rafforzamento del monitoraggio sui bilanci nazionali dei paesi membri: con tutta probabilità, il monitoraggio verrà esteso a una definizione più ampia del concetto di stabilità macroeconomica. In parte, ciò significa semplicemente ritornare allo spirito del Trattato di Maastricht: anche se l’enfasi, finora, è sempre stata posta sui casi di violazione del limite del 3% del PIL al disavanzo pubblico, il Trattato di Maastricht richiedeva in realtà di mirare ad un bilancio in pareggio in situazioni di crescita “normale” (lasciando che il disavanzo si allargasse fino ad un massimo del 3% del PIL in caso di recessione). Inoltre, il Trattato richiedeva anche che i paesi mantenessero, o riportassero, il loro rapporto debito pubblico/PIL sotto il 60%. Come sappiamo, la lettera del Trattato non è stato mai seguita; neppure le sanzioni previste per violazioni del limite del 3% sono mai state applicate. Il caso più eclatante si è verificato quando, nel 2003, Francia e Germania rifiutarono esplicitamente le sanzioni.

Nella fase attuale, si presta maggiore attenzione al livello di debito pubblico – consci del fatto che un indebitamento elevato limita lo spazio di manovra fiscale in caso di recessione. Come risultato di proposte italiane, il concetto di sostenibilità del debito tiene d’altra parte conto anche dell’indebitamento privato (molto ridotto nel caso del nostro paese).

L’idea è di andare oltre ai criteri del deficit e del debito, tenendo sotto osservazione anche l‘andamento della competitività e i disavanzi dei conti con l’estero. Questa scelta costituisce un passo importante verso un maggiore realismo. Vale la pena di ricordare che fino a non molto tempo fa, la BCE sosteneva che i disavanzi nei conti con l’estero fossero completamente irrilevanti all’interno di un’unione monetaria. Le severe difficoltà di finanziamento incontrate dalla Grecia ed ora, anche se in misura meno grave, dall’Irlanda e dal Portogallo hanno invece dimostrato che un elevato debito – combinato con una eccessiva dipendenza dai finanziamenti esteri – può comunque portare un paese verso la  crisi. Limitare gli squilibri esterni è quindi essenziale per mantenere la stabilità nell’area euro.

Un’altra importante idea sul tappeto è quella del cosiddetto semestre europeo: ossia un periodo durante il quale la Commissione Europea potrebbe valutare la coerenza reciproca dei diversi programmi economici nazionali.

Tutte queste proposte sono incoraggianti. Il problema, però, è che gli sforzi sono interamente concentrati sul rafforzamento delle regole e dei meccanismi di monitoraggio: mentre non aumenta la possibilità di assicurare l’applicazione delle regole stesse – e delle sanzioni corrispondenti.

Come accennato sopra, la ragione per cui il Patto di Stabilità si è rivelato inefficace è che non si è mai stati in grado di forzarne l’applicazione.

Il presidente Trichet ha per questa ragione sottolineato che il monitoraggio deve essere affidato ad istituzioni completamente indipendenti, e che le sanzioni dovrebbero essere “quasi automatiche”. Ad esempio, le sanzioni potrebbero essere immediatamente applicate dietro raccomandazione della Commissione Europea, a meno che i governi non votino esplicitamente per bloccarle – una sorta di proceduta di silenzio assenso. Queste sono comunque soluzioni di second best; nel caso specifico, esporrebbero la Commissione Europea al rischio di forti pressioni politiche per bloccare le sanzioni nella fase stessa della raccomandazione.

Resta insomma un nodo fondamentale: le decisioni di politica economica – ad eccezione della politica monetaria – sono giustamente prerogativa dei rappresentanti eletti dal popolo. Le istituzioni europee non hanno poteri sufficientemente forti per scavalcare il potere sovrano nazionale. Per questo il Presidente Trichet ha anche suggerito, con misurata diplomazia, che sarebbe opportuno adottare regole fiscali a livello nazionale che incorporino nella legislazione dei diversi paesi lo spirito delle regole fiscali europee. In effetti, questa sarebbe la soluzione più logica: se non è possibile scavalcare la sovranità nazionale, l’unica alternativa sarebbe di “cooptarla”. Anche in questo caso, tuttavia, non c’è modo di garantirsi che tutti i paesi membri vogliano seguire questa strada.  

L’Europa si trova in effetti ad un bivio. Ci siamo appena resi conto, con la gestione della crisi greca,. che la moneta unica crea un vincolo di solidarietà reciproca: i paesi membri non possono permettersi di lasciare che uno di loro fallisca, per i rischi di contagio che potrebbero conseguirne. Le autorità europee hanno in effetti segnalato chiaramente che l’idea di un default o di una ristrutturazione del debito, da parte di un paese membro, va considerata impensabile. Un tale livello di solidarietà, però, richiede un impegno irreversibile a rispettare regole comuni; o impone una più piena unione politica. Altrimenti, il rischio è che gli elettori dei paesi più solidi  si oppongano frontalmente all’idea di correre ripetutamente al salvataggio dei cugini meno prudenti.

L’alternativa sarebbe di stabilire regole che permettano un ristrutturazione “ordinata” del debito per i paesi più indebitati, cosa che permetterebbe ai mercati di imporre un maggior grado di disciplina tramite un costo del debito differenziato.

I temi chiave sono insomma sul tappeto, finalmente; le scelte sono difficili ma chiare. I policymaker europei devono scegliere, per dare all’eurozona un futuro più solido.