Il 12 giugno 2011 verrà ricordato come una data storica in Turchia: Recep Tayyip Erdogan si riconferma alla guida del governo con un consenso popolare del 50% – un risultato raggiunto in passato soltanto tre volte (nel 1950, 1954 e 1965) – ma non ottiene la maggioranza parlamentare utile ad emendare la Costituzione in vigore e sottoporla a referendum senza il sostegno dell’opposizione. Una Costituzione che fu imposta con la forza nel 1982, dopo un colpo di stato, e che molti considerano il principale ostacolo per una Turchia pienamente democratica.
Pur aumentando del 10% il proprio bacino elettorale rispetto alle consultazioni generali del 2007, il numero dei rappresentati in parlamento si è ridotto soprattutto grazie alla rinnovata vitalità del CHP (Partito Repubblicano del Popolo), che ha ottenuto il 25% dei voti. Questo partito laico di ispirazione socialdemocratica, sotto la nuova guida di Kemal Kiliçdaroğlu, pare aver abbandonato la retorica militarista propria del suo retaggio kemalista: ha così adottato un linguaggio più orientato al rispetto dei diritti civili e alla lotta contro le ineguaglianze, includendo nell’agenda la questione curda e il processo di adesione all’Unione Europea. Parte del consenso raccolto si deve comunque al crescente timore che Erdogan possa ulteriormente ampliare la propria sfera di influenza non solo in quegli apparati preposti a salvaguardare il kemalismo, ma anche su gran parte della società civile.
Kiliçdaroğlu ha sottolineato come il suo è l’unica forza politica che ha visto aumentare il numero dei propri deputati in parlamento: un successo anche personale, vista la conquista della provincia orientale di Tunceli, sua città di origine e un tempo roccaforte dell’AKP.
Nonostante alcuni scandali e i tentativi di esclusione dalla corsa elettorale orchestrati nel pieno anonimato, anche i nazionalisti del MHP e gli indipendenti sono entrati in parlamento, ottenendo rispettivamente 53 e 36 seggi. La maggior parte degli indipendenti confluirà nel BDP, il Partito della Pace e della Democrazia del popolo curdo che, come avvenne nel 2007, avrà un’importante rappresentanza. È infatti fallito il tentativo dell’AKP di accaparrarsi il supporto del sudest del paese: i 3 milioni di voti del BDP sottolineano che un compromesso con una rappresentanza moderata del “Kurdistan turco” sia imprescindibile per risolvere la spinosa questione curda. In altre parole, se il progetto indipendentista del Kurdistan sembra appartenere al passato, gli esponenti del BDP devono oggi dar prova di aver reciso i legami con l’organizzazione terroristica del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) e di saper utilizzare gli strumenti democratici per far sentire la propria voce; ma il governo, dal canto suo, deve mostrarsi realmente disponibile al dialogo.
Nel nuovo sistema partitico, non hanno invece trovato spazio i partiti minori, che in passato si erano aggiudicati il 13% dei voti.
In questo quadro, l’AKP si attesta nello spettro politico turco come partito dominante dalla chiara tendenza conservatrice/democratica. La conferma della leadership di Erdogan si deve proprio alla combinazione dei valori conservatori e di un’agenda democratica che si propone di essere al servizio del paese nel suo complesso. Il processo evolutivo dell’AKP – da movimento islamista con una linea strettamente identitaria al cosiddetto “liberalismo post-kemalista” – non è però completo: resta infatti da sviluppare appieno quell’apertura liberale che riconosca e incoraggi le diversità, favorendo la modernizzazione del paese. In tal senso, la performance del governo non è sempre stata impeccabile nei suoi otto anni al potere: lo zelo democratico connesso al processo di adesione all’Unione Europea ha subito un pericoloso rallentamento, mentre l’AKP ha rafforzato la sua posizione di potere grazie all’elezione di Abdullah Gül alla Presidenza della Repubblica – carica a cui sembra ora puntare Edrogan. Inoltre, molti hanno osservato con preoccupazione la stretta del governo sui media al fine di controllarne l’azione, almeno indirettamente.
Intanto, l’AKP non ha agito in modo altrettanto efficace per rendere effettive le riforme previste nella sua agenda. Le principali politiche riformatrici si sono concentrate essenzialmente sulla libertà di religione e sul ridimensionamento dell’apparato kemalista, sfidando i primi quattro articoli della Costituzione – che definiscono i fondamenti della Repubblica Turca – e contribuendo così ad accrescere i timori di parte dell’opinione pubblica.
Sebbene goda di un ampio e indiscusso favore popolare, il governo di Erdogan deve ora compiere un ulteriore salto di qualità per rispondere alle grandi aspettative che ha generato. La gestione dell’economia nazionale in rapida crescita entra ora in una fase delicata, tra preoccupazioni di bilancio e disoccupazione attorno al 10%. Restano poi alte le tensioni all’interno dello spazio pubblico, legate a questioni culturali e istituzionali che andranno affrontate anche mediante compromessi con le forze all’opposizione. Infine c’è la situazione internazionale e la generale instabilità dell’area mediorientale, a cominciare dalla situazione siriana: anche questa è una sfida diretta per la credibilità di Ankara, soprattutto visto il grado di esposizione e l’attivismo della politica estera turca verso Damasco.
Al suo terzo mandato, Erdogan dovrà dimostrare di essere non soltanto un abile leader politico, ma soprattutto un responsabile uomo di Stato in grado di lavorare su un terreno comune con tutte le componenti della società. I prossimi quattro anni sono quindi cruciali per il consolidamento del processo democratico e il ruolo internazionale del paese: ciò significa che anche l’opposizione dovrà attrezzarsi per formulare al meglio la propria idea di Turchia moderna. In fondo, gli esiti di queste ultime elezioni ci ricordano che la democrazia si basa su un ampio sostegno popolare, ma è l’inclinazione degli attori politici al compromesso a renderla effettiva ed efficace.