A due mesi dall’uscita di scena del presidente Hosni Mubarak, il fantasma di una controrivoluzione assume sempre più sembianze reali in Egitto: il paese si trova tra la Scilla del riformismo islamico e il Cariddi dell’estremismo. Sconfitto il nemico comune, la competizione tra queste due tendenze è nuovamente cresciuta e sembra ora minare l’equilibrio nazionale.
Basta guardare quanto accaduto all’interno della Fratellanza musulmana, fino ad ora il maggior movimento di opposizione al vecchio regime. Da anni vi convivevano un’ala conservatrice e una riformista, ma la rivolta di Piazza Tahrir ha esacerbato le differenze – non solo generazionali – tra queste due anime, al punto di produrre una spaccatura definitiva. Questo è avvenuto quando gli Ikhwan – i fratelli – hanno deciso di partecipare ufficialmente alla vita politica del paese, annunciando la creazione di “Libertá e Giustizia”, il primo vero e proprio partito che sia espressione del movimento. Per mesi la componente giovanile e riformista del movimento ha chiesto di essere ascoltata, minacciando di creare un nuovo partito se la leadership non avesse reagito. Il grande passo è arrivato per iniziativa di Abdel Moneim Aboul Fotouh, una colonna dell’ala riformista della Fratellanza, che ha creato il nuovo partito accogliendo anche i giovani Ikhwan che hanno combattuto a Tahrir.
Per cercare di ottenere ampio consenso, Libertà e Giustizia si è anche detto intenzionato ad aprire le porte alla minoranza copta, invitando i cristiani al dialogo. I copti hanno posto alcune precise condizioni: il rispetto dell’uguaglianza tra cittadini cristiani e musulmani; il riconoscimento del diritto di cristiani e donne di correre per la carica presidenziale; le scuse ufficiali per la dichiarazione nella quale la precedente guida suprema della Fratellanza aveva detto che sarebbe stato meglio che l’Egitto fosse governato da un musulmano di origini non egiziane piuttosto che da un egiziano non musulmano. Anche se, soprattutto a livello giovanile, copti e musulmani stanno cercando punti di contatto, difficilmente la leadership degli Ikhwan accetterà queste condizioni.
Intanto, arrivano segnali preoccupanti dal movimento salafita – ala estremista dell’Islam sunnita le cui origini rimandano al wahabismo di origine saudita – che negli ultimi trent’anni è divenuto sempre più influente anche in Egitto. Alcuni degli egiziani emigrati nel regno saudita per questioni di lavoro hanno infatti tentato, una volta tornati in patria, di trapiantarvi la visione wahabita. I salafiti non hanno preso parte all’organizzazione della rivoluzione del 25 gennaio, e sono scesi per le strade del Cairo solo quando era evidente che il presidente Mubarak era fuorigioco. Il movimento sta ora facendo di tutto per approfittare di questo periodo di transizione e imporre la sua visione. A temere maggiormente le conseguenze di una loro ascesa politica sono i copti, ma anche le donne. Nelle scorse settimane si sono infatti registrati episodi di violenza da parte di salafiti che si sono introdotti con forza in alcune abitazioni per punire presunte prostitute.
I rappresentanti di vari partiti politici hanno chiesto ai militari di intervenire per bloccare le azioni degli estremisti; il Consiglio Supremo delle Forze Armate li ha rassicurati, dichiarando in un comunicato ufficiale che “l’Egitto non sarà governato da un altro Khomeini”. A essere particolarmente preoccupati sono anche i sufi, una corrente mistica dell’Islam caratterizzata da interpretazioni tolleranti, che da anni accusa i salafiti di essere agenti pagati dai sauditi per diffondere il radicalismo in Egitto. Questi timori hanno trovato conferma nel mese di aprile, quando numerosi luoghi di culto sufi sono stati presi d’attacco dai salatiti. Il rischio di una guerra settario è grave, al punto che la stessa Fratellanza musulmana si è proposta per mediare tra le parti.
Durante il regime di Mubarak nessuno di questi gruppi aveva mostrato interesse a partecipare alla vita politica del paese, ma da quando i diversi settori egiziani hanno deciso di organizzarsi in partiti anche i salafiti hanno modificato la loro storica posizione contraria alla partecipazione politica, decidendo di creare un partito. A confermarlo è stato lo sheikh Mohamed Hassan, in un’intervista rilasciata al quotidiano saudita Al-Sharq Al-Wasat nella quale ha precisato che il nuovo partito si candiderà alle elezioni parlamentari previste per il prossimo settembre, ma non presenterà alcun uomo alla corsa presidenziale. È stata probabilmente la discesa in campo dei salafiti il fattore che ha spinto i sufi a compiere la stessa mossa. “Se lo stato non riesce a garantirci protezione, saremo costretti a fare qualcosa di pratico per difenderci. Per questo pensiamo alla creazione di un partito in grado di portare avanti le nostre rivendicazioni contro questi estremisti” ha dichiarato al quotidiano egiziano Al-Masry Al-Yaoum lo sheikh Gaber Kassam al-Kholy, massima autorità della comunità sufi di Alessandria.
A influenzare il futuro della competizione politica tra diverse istanze religiose sarà anche la bozza di legge presentata dall’esercito a fine marzo, nella quale si chiede di bandire la creazione di partiti basati sulla religione. Il prossimo parlamento dovrà creare una commissione con il compito di scrivere una nuova Costituzione, e dunque la tornata elettorale di settembre potrebbe essere davvero decisiva per il futuro.
Va ricordato che l’articolo 2 dell’attuale Costituzione dichiara l’Islam la religione di stato e la shari’a la fonte principale della giurisprudenza egiziana. Di quell’articolo, e dei principi generali che contiene, si discute già da mesi. A ciò si collega infatti direttamente anche il dibattito attorno alle discriminazioni delle minoranze e delle donne: in tale ottica, sarà cruciale che la commissione costituente sia rappresentativa degli interessi di quanti fino ad ora sono stati emarginati dal regime.