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Egitto e Israele: il muro della diffidenza nonostante gli interessi comuni

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I rapporti tra Israele e l’Egitto si stanno modificando, sebbene il Trattato di Camp David del 1978 non sia in discussione. La penetrabilità della regione del Sinai e attacchi lanciati da cellule terroriste hanno messo in allerta Tel Aviv, ancora indecisa se delegare il controllo di quelle aree alle autorità egiziane o rischiare incidenti diplomatici potenzialmente gravi entrando in suolo egiziano per eliminare potenziali minacce.

L’unico confine sicuro di Israele ha cessato di esserlo, trasformandosi in un nuovo fronte di frizioni con l’Egitto. Solo negli ultimi tre mesi, tre incursioni sono state condotte entro i confini israeliani da militanti islamisti provenienti dal Sinai: cellule dormienti jihadiste locali o infiltrate recentemente, avvantaggiate dal caos in cui versa la regione e coperte dalle popolazioni beduine locali. L’ultima incursione è avvenuta il 28 settembre, con l’uccisione di un militare israeliano. Pochi giorni prima si era avuta un’esplosione alla stazione ferroviaria di Talkha, sempre nel Sinai, che molti commentatori egiziani hanno voluto leggere come un avvertimento al presidente Mohamed Morsi e ai Fratelli musulmani a non eccedere nella repressione dei gruppi armati locali. Secondo alcuni, gruppi armati jihadisti avrebbero minacciato il governo egiziano di estendere le proprie azioni ai resort turistici sul Mar Rosso, con un danno potenziale ancor maggiore per la fragile ripresa dell’economia nazionale.

La differenza di vedute tra Israele e l’Egitto sul Sinai è molto netta: mentre per il governo Morsi riassumere il controllo della penisola ed evitare ulteriori attacchi a basi militari e caserme di polizia è un obiettivo necessario, ma non una priorità assoluta, per le forze armate israeliane stemperare il pericolo che proviene dal Sinai è diventato un obiettivo primario – secondo soltanto alla questione nucleare iraniana e una minaccia più consistente dei razzi lanciati dalla Striscia di Gaza. Il confine tra i due paesi, fino a un anno e mezzo fa attraversato a senso unico da turisti israeliani in rotta verso Tabah, è oggi ermeticamente chiuso e quasi ridotto all’ennesima (per Israele) frontiera militare.

Un portavoce di Morsi ha recentemente dichiarato che i Fratelli musulmani non chiederanno una revoca o emendamenti al Trattato di pace di Camp David, almeno nell’immediato: rispetto alle dichiarazioni precedenti, tale annuncio potrebbe suonare come un tentativo inaspettato di conciliazione con Israele. In realtà, il vero significato della mossa è da cercare altrove: l’Egitto ha deciso di “battere altre strade” per giungere allo stesso risultato. Da un lato ha capito che non è essenziale modificare formalmente il Trattato per intervenire con mezzi pesanti o aerei nel Sinai in violazione dei patti, dal momento che le azioni militari antiterrorismo sono recepite positivamente dagli israeliani e necessitano solo di un minimo di coordinamento tra le due forze; dall’altro Morsi ha deciso che la vera partita diplomatica non si gioca  nel chiedere una revoca di Camp David, ma, al contrario, la sua piena applicazione. E chiederla agli Stati Uniti, in primis, che se ne sono resi garanti all’atto della stipula nel 1978, salvo lasciare cadere nel dimenticatoio le clausole che riguardavano lo Stato palestinese.

Per Israele, lo scenario regionale si fa sempre più fosco. I politici fanno a gara a ribadire che, in un Medio Oriente impazzito, Israele rimane ancor di più l’unico stato stabile e democratico su cui si possa fare affidamento. Gli stessi rivendicano la saggezza della scelta fatta di non intromettersi negli affari interni degli Stati arabi e non prendere posizione vicina rispetto alla guerra in Siria. Tuttavia, a dispetto del principio di non-interferenza, gli israeliani hanno dimostrato in tutti i modi possibili di non apprezzare le Primavere arabe e di considerarle un fattore che milita contro la stabilità regionale.

Al contrario, l’allineamento strategico con le monarchie petrolifere del Golfo, pur in assenza di legami diplomatici formali, si va progressivamente rafforzando. Il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti vedono con favore tutti quegli attori regionali che siano al contempo anti-iraniani e anti-rivoluzionari e non hanno particolari preclusioni a collaborare, per interposta persona, con Israele, qualora tale cooperazione concorra ai loro obiettivi strategici. L’Arabia Saudita è più reticente, a causa del valore simbolico di guida dell’Islam che ricopre per tutta l’umma, ma non impedisce agli stati più piccoli del Golfo, ideologicamente meno vincolati, di essere tale alleanza di fatto. Israele, da parte sua, non ha nessuna reticenza a collaborare con i paesi del Golfo: difficilmente, infatti, potrebbe trovare alleati più solidi nella questione che preme maggiormente al paese, quella di dare ultimatum definitivo – imporre una red line all’Iran.

A complicare il quadro si inseriscono, però, i rapporti contraddittori che sia Israele che le monarchie del Golfo hanno instaurato con il nuovo Egitto. Le monarchie del Golfo hanno avviato una politica “di vicinanza” e investimenti a sostegno del governo dei Fratelli musulmani, senza però legittimare il processo rivoluzionario popolare e spontaneo che li ha portati al potere. Tale atteggiamento si manifesta ad esempio nel rifiuto categorico di erogare visti e permessi di lavoro a cittadini egiziani per i gli Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrein e  Kuwait, le cui popolazioni potrebbero risentire della propaganda rivoluzionaria e dall’afflato democratico proveniente dal Cairo.

Tel Aviv, pur disprezzando i cambiamenti in corso in Egitto, non può evitare un minimo di coordinamento e cooperazione, soprattutto fino al momento in cui non sarà stata completata la costruzione del muro di separazione tra i due paesi, considerato comunque un palliativo e non una soluzione definitiva alle infiltrazioni jihadiste e alle pressioni migratorie dall’Africa. Israele diffida della sincerità e della capacità militare e strategica egiziana di riportare l’ordine nel Sinai e impedire futuri attacchi ai propri danni, ma teme anche, a ragione, che azioni delle forze armate israeliane in territorio egiziano (frequenti ai tempi di Mubarak) non verranno più tollerate. La sensibilità egiziana rispetto agli attacchi alla sovranità nazionale e territoriale è oggi molto più forte ed è probabile che uno sconfinamento israeliano in Sinai non rimarrebbe impunito e inciterebbe la folla contro l’ambasciata israeliana al Cairo ed altri obiettivi facilmente accessibili. È probabile, dunque, che Israele ricorrerà sempre di più ad attentati preventivi mirati ai terroristi palestinesi a Gaza, prima che varchino i tunnels per l’Egitto, ma anche che, così facendo, il margine di errore aumenterà. A ciò si aggiunge, se è vero quanto riportano alcune fonti egiziane (al-ahram), che il premier palestinese Ismail Haniyeh avrebbe chiesto al presidente Morsi di apprestare un sevizio di controllo, doganale e militare, congiunto al valico di Rafah – “normalizzando” di fatto la frontiera e legittimando Hamas. Se così fosse, le relazioni tra Egitto e Israele potrebbero subire ulteriori peggioramenti, dagli esiti imprevedibili.  Se però Israele desiderasse, almeno su quel versante, ridurre le tensioni, potrebbe  esprimere apprezzamento per i tentativi egiziani di incoraggiare la riconciliazione intra- palestinese e per il tentativo di includere Hamas nei futuri negoziati di pace. Tuttavia un’apertura in questo senso comporterebbe, di fatto, un riconoscimento di Hamas e quello ufficiale del fallimento degli Accordi di Oslo. Uno scenario, questo, che sembra essere troppo lontano dalle attuali posizioni israeliane.