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Egitto e Israele: il fattore energetico

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Negli ultimi mesi, gli incidenti avvenuti al gasdotto egiziano Arab Gas Pipeline (AGP) e gli attentati nel Negev hanno riportato l’attenzione sul problema della sicurezza del Sinai, una delle zone più instabili dell’Egitto. I problemi lungo il confine israelo-egiziano rischiano non solo di incrinare i rapporti politici bilaterali, con evidenti riflessi anche sugli equilibri regionali, ma anche di avere ripercussioni su entrambe le economie nazionali.

L’Arab Gas Pipeline è un gasdotto transfrontaliero che parte da el-Arish, nel nord del Sinai, e che si snoda in due rami, raggiungendo Israele e gran parte del Mashreq. Il braccio principale attraversa il Golfo di Aqaba, nel sud del Sinai, risalendo verso nord e distribuendo gas naturale a Giordania, Libano e Siria. Il ramo secondario di el-Arish-Ashkelon, costeggiando la Striscia di Gaza, rifornisce Israele in virtù di un accordo stipulato nel 2005 (entrato in vigore nel marzo del 2008) tra la israeliana Israel Electricity Corporation (IEC) e l’egiziana East Mediterranean Gas Company (EMG). La joint-venture israelo-egiziana prevede che l’EMG rifornisca Israele ogni anno di 1,7 miliardi di metri cubi di gas naturale per quindici anni. Il contratto prevede, inoltre, la possibilità di aumentare la quantità di gas esportato del 25% e di prorogare di altri cinque anni le forniture. Con i suoi 1.200 km di tubature e una capacità massima annua di circa 10 miliardi di metri cubi, l’Egitto è divenuto uno dei maggiori produttori di gas naturale dell’Africa, secondo solo all’Algeria (secondo i dati del ministero del Petrolio egiziano, il paese produce circa 63 miliardi di m³ l’anno). Nell’ultimo decennio, il commercio di gas naturale – aumentato all’incirca del 7% annuo – ha garantito al Cairo importanti sbocchi commerciali verso l’Unione Europea e la Turchia. Altri progetti del governo egiziano prevedono un prolungamento del gasdotto fino a Kilis, nella Turchia meridionale, con l’ambizioso obiettivo di rifornire il mercato europeo. Il gasdotto potrebbe rappresentare una valida alternativa per l’economia nazionale egiziana, che si fonda principalmente sul turismo.

L’AGP costituisce una risorsa di approvvigionamento energetico altamente strategica anche per Israele: da questo gasdotto Tel Aviv dipende per il 40% del suo consumo totale. Tale fonte di approvvigionamento è tanto più fondamentale in quanto Israele non dispone di vere alternative e non intrattiene buone relazioni diplomatiche con gli altri produttori nel mondo arabo. La fornitura di gas allo Stato ebraico è stata oggetto, in passato, di numerose proteste in Egitto da parte di islamisti, secolaristi e anti-governativi che accusavano l’allora presidente Hosni Mubarak di aver venduto gas ad un prezzo inferiore a quello di mercato. In realtà, la protesta contro le forniture ad Israele sono sembrate essere dettate più da motivazioni di natura ideologica che economica, soprattutto in considerazione delle modeste quantità esportate che non mettono certo a rischio il futuro dell’industria estrattiva egiziana.

In questi mesi, il gasdotto ha subito cinque attentati da parte di alcuni gruppi armati non ben precisati. Come riportato da alcuni quotidiani cairoti (Al-Wafd e Al-Ahram), si è supposto che gli autori potrebbero essere beduini insieme a militanti palestinesi, jihadisti, salafiti e qaedisti, attivi nel Sinai. Nonostante le smentite ufficiali da parte di Khaled Fuad, governatore della regione, gli atti di sabotaggio al gasdotto hanno causato un’interruzione dell’approvvigionamento energetico israeliano e giordano; si sono così temute contromisure economiche da parte di Tel Aviv. Chiunque abbia tentato di sabotare il gasdotto nei pressi di el-Arish, dunque, potrebbe avere avuto un duplice obiettivo: da un lato, colpire l’economia egiziana, già provata dall’instabilità interna, e dall’altro lato, ledere gli interessi israeliani, non solo dal punto di vista della sicurezza militare ma anche dal punto di vista del rifornimento energetico.

Secondo i dati ufficiali del governo, si stima che fra dieci anni Israele riuscirà a generare il 20% della propria elettricità grazie al gas egiziano. La possibile via d’uscita dall’attuale dipendenza energetica potrebbe essere costituita dallo sfruttamento dei giacimenti offshore di gas naturale di Dalit, Tamar e Leviathan nello spazio marittimo al largo di Haifa: si tratta però di siti già contesi con Cipro e Libano. I giacimenti in questione sono stati esplorati, su commessa del governo, da un consorzio guidato dalla compagnia israeliana Delek e dalla texana Noble Energy; secondo le stime delle due società vi sarebbero circa 450 miliardi di m³ di gas naturale sotto il mare, cioè una quantità tre volte superiore a quella trasportata dall’AGP. Il progetto dovrebbe essere realizzato entro il 2013, ma proprio alla luce degli eventi recenti, Israele starebbe cercando di affrettare i tempi per evitare tagli alle forniture. Il piano del governo prevede che, mentre il gas del Tamar verrà utilizzato, entro la fine del 2012, per soddisfare la domanda interna, quello del Leviathan sarà invece esportato, facendo di Israele un esportatore di gas.

Qui la questione si intreccia anche con i difficili rapporti diplomatici tra Israele e Turchia. Tel Aviv e Nicosia, infatti, avrebbero già raggiunto degli accordi sui confini marittimi e sullo sfruttamento del gas dell’area, mentre con Cipro Nord, la parte turca del paese, Israele non sembra essere intenzionata a raggiungere alcuna intesa in merito, provocando ulteriori tensioni con Ankara. Questo caso ha contribuito alla rottura delle relazioni diplomatiche con la Turchia, e ha reso ancor più preziosa, agli occhi di Israele, la cooperazione economica con l’Egitto per evitare un ulteriore isolamento diplomatico e geostrategico. Nei calcoli di convenienza economica e di sicurezza degli approvvigionamenti, dunque, entrano anche considerazioni più ampie e complesse, che potranno avere dei riflessi per l’intero bacino del Mediterraneo.