L’interrogativo che circola è questo, dopo le elezioni europee: come mai la sinistra, quasi dovunque in Europa, non è riuscita a sfruttare a suo vantaggio la crisi del capitalismo globale?
Dopo tutto, continua così l’argomento, una crisi del genere avrebbe dovuto premiare le posizioni socialdemocratiche, attente per definizione all’equilibrio fra Stato e mercato, favorevoli a una certa dose di interventismo, sensibili alla solidarietà sociale e così via.
Ma è un argomento che poggia su presupposti sbagliati. Dagli anni ’90 in poi, la sinistra riformista si è infatti largamente identificata con la logica del capitalismo globale: come scrive Giuseppe Berta in suo nuovo libro per il Mulino, i partiti socialdemocratici hanno aderito ai caratteri del capitalismo contemporaneo “abbandonando la pretesa di trasformarli”.
Se la tesi di Berta è corretta (con i caveat illustrati da Andrea Romano sul Sole-24 ore), si può aggiungere che la sinistra è diventata liberista (a parole almeno) contro-tempo: proprio quando, cioè, il ciclo espansivo della globalizzazione stava cominciando a generare gli squilibri esplosi anni dopo. Non è quindi così paradossale che la crisi del capitalismo globale abbia anche segnato la crisi dei partiti della sinistra. Di quella sinistra che la globalizzazione l’aveva appunto governata nella seconda metà degli anni ’90 – con Blair e con le idee progressiste appoggiate alla sponda offerta allora da Bill Clinton.
Non a caso, guardando in particolare a Francia ed Italia, le critiche al “fondamentalismo del mercato” sono venute dal centro-destra, prima che dalla sinistra riformista. Nicholas Sarkozy e Giulio Tremonti hanno occupato, così, anche uno spazio ideologico che la sinistra progressista aveva lasciato libero e che la sinistra radicale potrebbe in teoria rivendicare – salvo che la critica del capitalismo in quanto tale, non delle sue distorsioni, la rende comunque una forza politica non credibile.
Al di là della diversità fra i casi nazionali, la tendenza al declino dei partiti socialdemocratici o simili è chiara: nei paesi principali dell’Unione europea, la sinistra ha perso dovunque, sia che fosse al governo (Spagna e Gran Bretagna) sia che fosse all’opposizione (Francia e Italia). E se la gente ha votato con in testa la crisi economica, i posti di lavoro, la sicurezza, ha guardato in genere verso il centro-destra.
Saldando la critica al “mercatismo” con le paure sull’immigrazione o le polemiche sull’allargamento dell’Unione, il centro destra francese e quello italiano hanno infatti proposto una sintesi politica che – al di là della sua efficacia reale – è in grado di parlare all’elettorato popolare meglio di quanto non riesca a fare una sinistra fisiologicamente vulnerabile sui temi della sicurezza. Quando la crisi finanziaria è esplosa, i partiti conservatori al governo si sono quindi trovati in una posizione più comoda dell’opposizione riformista; ciò vale per i paesi del cuore dell’Europa continentale, Germania inclusa, e vale anche per il principale dei nuovi membri dell’Unione, la Polonia. Mentre il caso inglese ha dimostrato, con il tracollo di Gordon Brown, l’esaurimento finale del ciclo del “labour” – sia nuovo (l’eredità di Blair) che vecchio (il tentativo di Brown, a crisi aperta, di governarla portando alle stelle il debito pubblico inglese).
Questo lo sfondo generale. A cui vanno aggiunti due punti specifici sull’Europa in quanto tale. Primo, la sinistra ha sempre difeso l’allargamento dell’Unione europea, anzi l’ha in parte gestito con Romano Prodi alla presidenza della Commissione. Per ragioni giuste: il risarcimento dovuto a quella metà dell’Europa “rapita”, rimasta per circa mezzo secolo al di là della cortina di ferro. Ma con la crisi economica e con la drammatizzazione dei problemi dell’immigrazione, la posizione pro-allargamento è diventata perdente in termini elettorali e quanto mai impopolare. Secondo, la sinistra – in Italia, in particolare – ha continuato a parlare di un’Europa che non c’è ma che si vorrebbe, l’Europa del modello federale, poggiata su una forte base democratica parlamentare. Il punto è che la maggior parte dei cittadini europei vede ancora nei propri governi, non nel Parlamento europeo, la base essenziale della legittimità democratica (il tasso di astensionismo lo conferma). E dopo queste elezioni, se il nuovo Parlamento europeo acquistasse finalmente i poteri previsti dal Trattato di Lisbona, sarebbe un Parlamento dominato dal PPE e con forze eccentriche di destra, alcune delle quali esplicitamente euro-scettiche o anti-europee.
C’è un rischio aggiuntivo, per la sinistra riformista. Il rischio è che il raggiustamento inevitabile della propria linea politica avvenga di nuovo contro tempo. Quando la crisi finanziaria verrà superata, il pendolo del rapporto Stato-mercato tornerà verso il mercato – finalmente Quello sarebbe il momento giusto per potere contare su una sinistra riformista, solidale ma al tempo stesso autenticamente liberista. Ammesso che quelle posizioni esistano ancora. E che non siano state abbandonate, proprio quando tornerebbero utili.
Il caso tedesco contiene, da questo punto di vista, un monito importante: di fronte al ripiegamento nazionalista e statalista della SPD, le chances di una futura coalizione fra Angela Merkel e i liberali (veri vincitori di questa tornata elettorale) appaiono in netto aumento. La vittoria di una coalizione del genere, il caso Opel dovrà pure insegnare qualcosa, sarebbe negli interessi dell’Europa nel suo insieme.
In conclusione, se l’Europa non ha avuto un effetto Obama – la crisi economica che favorisce il ricambio – non è solo perché un Obama europeo non si vede: né in Italia, né in Francia, né in Germania. E non è solo perché l’impatto della crisi economica è stato forse meno brutale, per ora almeno, nel Vecchio Continente. E’ anche perché Obama è apparso come l’esponente di un nuovo tipo di visione democratica, diversa da quella degli anni ’90. In America, è stato Obama a ideare una sintesi che trascende le divisioni ideologiche tradizionali. In Europa, questa dilatazione dello spazio ideologico è riuscita per ora alla destra, bene o male che sia.
Further reading
“Perché conviene tenersi Barroso” by Antonio Missiroli
“Le radici del malessere europeo” by Sergio Romano, Aspenia n. 45