international analysis and commentary

Dove l’America è differente

263

Nicolas Sarkozy è l’ottavo leader europeo caduto dal 2010; è stato certamente molto danneggiato dall’impatto della crisi economica, come gli altri prima di lui. Intanto, il presidente degli Stati Uniti è in vantaggio nei sondaggi rispetto al Repubblicano Mitt Romney. Rimane qualche rischio di sorprese negative per la campagna di Obama – finora pacata e quasi difensiva – ma la sensazione è che solo un imprevisto o dei gravi errori dell’amministrazione possano dare la vittoria allo sfidante.

Siamo allora di fronte a una specie di “eccezione americana”? Perché Obama non viene sommerso da un’ondata di “anti-politica”, populismo, o quantomeno rancore che favorisca nettamente i suoi avversari? In fondo, il presidente ha salvato le banche ma non ha saputo impedire che il tasso di disoccupazione arrivasse attorno al 10%, mentre il clima politico è molto polarizzato e quella riforma sanitaria che è stata il maggiore obiettivo legislativo dell’amministrazione è tuttora impopolare: insomma, le condizioni per un voto di protesta ci sono tutte.

Si è spesso detto di Romney che sia un candidato debole, ma lo stesso poteva dirsi di François Hollande in Francia. Dunque, altre dinamiche devono causare le profonde differenze nei cicli politici tra le due sponde dell’Atlantico. Certo, la tempistica può aiutarci a spiegare: Obama ha ereditato la crisi dal suo predecessore, e anzi ha perfino beneficiato elettoralmente della sua fase iniziale più acuta nelle settimane cruciali delle presidenziali 2008. Gli elettori non possono così imputargli l’origine del collasso finanziario e del mercato immobiliare, ma – cosa meno ovvia – evidentemente molti di loro ripongono ancora fiducia in lui per gestire la tanto agognata ripresa. Il peggio della recessione è probabilmente passato per gli americani, e i primi segnali di ripresa sono bastati perché i sondaggi riportassero il presidente a livelli accettabili di gradimento dopo un grave calo nel 2009-2010. Eppure, una ripresa tuttora incerta, e i tanti fattori di debolezza strutturali che quasi tutti gli analisti riconoscono come un grave problema per i prossimi decenni, possono indurre l’opinione pubblica a rifugiarsi nel populismo nazionalista dei Tea Party o nell’antagonismo colorito di Occupy Wall Street. Nonostante tutto ciò, negli Stati Uniti il centro dello spettro politico sembra “reggere”. In ultima analisi, i timori degli ultimi mesi sono stati smentiti quando le primarie repubblicane hanno premiato il candidato più moderato, mentre il presidente non si è fatto trascinare davvero a sinistra. Nella corsa verso il voto di novembre, è quasi certo che le posizioni centriste risulteranno ancora più vincenti.

E questo dato è particolarmente significativo se si ricorda che si è molto parlato, dal 2008, di una vera transizione epocale, cioè in sostanza della fine dell’era americana. Per un sistema politico, sociale ed economico che sarebbe già oltre l’orlo del declino terminale, gli Stati Uniti stanno vivendo la campagna elettorale 2012 con toni piuttosto raziocinanti.

Di contro, in quasi tutti i paesi europei i governi in carica hanno avuto l’opportunità – che hanno cercato sistematicamente di sfruttare – di imputare proprio all’America le responsabilità del tracollo finanziario che ha poi colpito, con il ritardo di un lento tsunami, i loro debiti sovrani. A dispetto di questo apparente vantaggio politico, sono stati comunque condannati dai propri elettori. Perfino la cancelliera Angela Merkel, che a tratti è apparsa inattaccabile, è ormai sotto pressione in termini di consenso interno – oltre ovviamente ad essere il bersaglio di mille critiche e attacchi ovunque nel continente. Quel che è peggio, c’è in Europa un diffuso problema di consenso e di tenuta del tessuto sociale, sotto i colpi della crisi e dei programmi di austerità: la Grecia insegna.

Le chiavi per spiegare la divergenza tra Europa e Stati Uniti in questa fase sono probabilmente due.

La prima sta nella solidità del sistema costituzionale statunitense rispetto alla costruzione europea (non solo l’eurozona o la stessa UE, ma più ampiamente il rapporto tra stati nazionali e impegni europei). I cittadini americani possono contare su un sistema politico e sociale che si rinnova più rapidamente di quelli europei, pur conservando le sue caratteristiche fondamentali che di fatto nessuno ha davvero messo in discussione: un mix di innovazione, adattamento e stabilità. L’economia fa il resto, marcatamente diseguale nella distribuzione del reddito ma in grado di premiare chiunque riesca a cavalcare l’onda giusta: l’incentivo a rischiare, fallire, e ritentare è tuttora forte.

La seconda chiave di lettura sta nell’atteggiamento complessivamente più aperto e coraggioso della società e della classe politica americane verso la globalizzazione. Perfino parte della destra del Partito Repubblicano ha infatti sviluppato buoni anticorpi contro la tentazione di chiudersi ai mercati e al mondo esterno, grazie alla sua anima liberista e mercantile.

L’assenza di queste caratteristiche impedisce alla maggior parte dei paesi europei di risollevarsi rapidamente, e l’euro a guida tedesca contribuisce a concentrare gli sforzi sugli obiettivi di austerità a discapito di quelli per liberare le energie imprenditoriali e innovative. Per molti versi, gli europei si comportano in modo coerente con i vincoli che si sono dati, e che oggi soprattutto la Germania intende far rispettare – come la cancelliera ha subito confermato al neo-eletto Hollande. Rimane però un quesito a cui proprio i cicli elettorali daranno una risposta: sarà sufficiente il ricambio di leadership per cambiare il mix delle politiche economiche, monetarie e fiscali in modo da favorire con strumenti endogeni la crescita e l’occupazione? Oppure l’Europa dovrà affidarsi interamente al traino dei mercati internazionali (soprattutto la solita America) per riprendersi dalla crisi?