international analysis and commentary

Dopo il Census 2010: l’America politica in vista del 2012

296

L’analisi dei dati del Census 2010, compiuta su Aspenia online e neodemos.it dal Professor Livi Bacci, ci aiuta a confermare le interpretazioni dell’America politica ed elettorale prodotte negli ultimi anni. Da quando cioè ci si interroga su come Obama sia riuscito a vincere, e a farlo con un ampio margine di voti e consensi anche al di fuori del tradizionale bacino democratico (pensiamo a stati come la Virginia o la North Carolina, e all’avanzata “blu” nell’Ovest del paese).

Per spiegare quel voto si offrono solitamente due tipi di interpretazioni, una che ha a che fare con l’offerta politica delle presidenziali del 2008 e un’altra con i trend demografici di lungo periodo (tracce importanti di questo dibattito sono reperibili nei numeri 43, 47 e 51 di Aspenia). Da un lato c’è stata la crisi politica ed economica dell’amministrazione Bush – l’inizio della crisi finanziaria e l’andamento incerto di due guerre, una delle quali iniziata ben sette anni prima – e la stanchezza che verso tutto il set delle politiche conservatrici, in auge dai tempi di Reagan (anche se la seconda parte di questa tesi è sembrata in dubbio con il risultato delle elezioni di medio termine del 2010). Dall’altro lato ci sono gli effetti dei cambiamenti demografici e sociali che sembravano puntare verso un riallineamento elettorale pro-democrats in alcuni stati chiave, a partire dagli stati dell’Ovest, ma anche dalla già citata Virginia e dalla Florida.

In tale ottica, l’idea di fondo è che la società “majority-minority” (in cui le “minoranze” ammontano di fatto a maggioranza numerica) che ci viene presentata da Livi Bacci sia, in potenza, il terreno ideale per una solida ascesa politica democratica. Ciò in virtù del fatto che le minoranze tendono a votare più per il partito democratico che per quello repubblicano (nel 2008 due elettori ispanici su tre votarono appunto per i dems). Trattandosi di tendenze, ci si rende conto di quanto la politica americana oggi guardi già avanti (a partire proprio dall’elezione di un presidente mulatto), ma al tempo stesso sia ancora ben piantata nel suo passato “bianco”: se è vero che dagli anni Setanta a oggi la percentuale di elettorato white sul totale dei votanti è scesa dal 90% al 74%, è altresì innegabile che questo segmento di elettori – il più numeroso e il più anziano – è anche il più costante nel recarsi alle urne. Per Obama e i democratici è bastata la diserzione alle urne dell’elettorato che era stato appena conquistato nel 2008 (alcuni milioni di elettori “saltuari” o che avevano votato per la prima volta in quell’occasione, in particolare giovani e/o appartenenti alle minoranze) per patire una sonora sconfitta nelle elezioni del 2010.

Immaginando un’America majority-minority i democratici sorridono, ma sanno che la strada è comunque in salita: intanto costruiscono una narrazione del paese, per usare un termine di moda, che lo descriva sempre più rainbow. Ormai si tratta persino di uno spunto polemico, utilizzato comunemente nel dibattito politico: il 19 giugno la Tea Party Patriots – una delle piattaforme di coordinamento del movimento del Tea Party – ha attaccato Howard Dean (chairman del Democratic National Committee dal 2005 al 2009) per aver affermato che il Tea Party è null’altro che un gruppo di “pericolosi, disperati e bigotti fomentatori d’odio” formato da “maschi bianchi sopra i 55, sempre più arrabbiati perché il futuro del paese non appartiene a loro”. Dean aveva aggiunto che si tratta di un fatto “demografico e non politico”, rivolgendosi alla platea della Netroots Nations, giovani attivisti del web che appoggiarono Obama con entusiasmo nel 2008, ma freddi nei confronti dell’amministrazione nel loro ultimo conclave annuale.

Per usare i termini del marketing politico, i democratici hanno di fronte un problema di “fidelizzazione”, soprattutto rispetto alla comunità ispanica. Secondo un sondaggio del Pew Hispanic Center – del quale ha scritto Marco Mariano qui su Aspenia online – le mosse dell’amministrazione Obama mostrano attenzione al problema (anche se sul tema più importante, l’immigrazione, non si è fatto molto di concreto): il nuovo giudice della Corte Suprema, Sonia Sotomayor, è stata riconosciuta come l’ispanica più importante del paese dai membri della sua comunità, seguita da altri due democratici, il deputato di Chicago Luis Gutierrez e il sindaco di Los Angeles Antonio Villaraigosa. Ma si tratta in realtà di percentuali “di riconoscibilità” basse e divise tra molti leader: gli ispanici hanno infatti risposto “non lo so” nel 64% dei casi. La mancanza di figure di spicco immediatamente riconoscibili potrebbe essere indice di un’identità politica incerta.

È chiaro che per i democratici si tratta in qualche modo di una battaglia per la conquista del futuro: dei 50,6 milioni di ispanici censiti nel 2010, il 34,9% ha meno di 18 anni, mentre il 31,3% degli ispanici con diritto di voto ha meno di 29 anni (si tratta della fascia di età che vota di meno in assoluto, e tra gli elettori bianchi solo il 20% ha meno di 29 anni). In quanti tra loro daranno per scontato, un giorno, che a casa si vota democratico?

In realtà ci avevano provato anche i repubblicani di George W. Bush nei primi anni 2000, sconfessati poi dal resto del partito (ma non da John McCain) con il sostegno verso politiche anti-immigrazione molto severe, tanto a livello locale che federale. D’altronde Bush junior vive in Texas e ha ben presente il problema, assieme ad altri membri del GOP che su questo tema hanno assunto posizioni diverse rispetto alla maggioranza del partito. Nelle campagne elettorali del 2000 e del 2004, infatti, Bush provò a creare un terreno di contatto con gli elettori ispanici utilizzando l’arma delle politiche verso la famiglia, della religione e dell’apertura sul fronte della concessione dei diritti per i “guest worker” messicani. Si trattava di un mix di questioni materiali ed etiche, sulle quali Bush ottenne risultati decenti: nel 2004 si aggiudicò il 44% del voto ispanico, un 10% in più dei voti raccolti da McCain nel 2008.

Gli esercizi con i quali possiamo immaginare i cambiamenti politici che avverranno sotto la spinta delle trasformazioni demografiche sono molto affascinanti, ma il futuro prossimo vede l’amministrazione Obama impegnata su un terreno ancora piuttosto tradizionale. Le elezioni presidenziali sono in realtà la somma di cinquanta competizioni locali, e saranno ancora decisivi gli stessi stati di sempre: a partire dall’Ohio nella Rust Belt (uno stato nel quale quattro quinti della popolazione è bianca, e dove si patiscono gli effetti della crisi economica), e dalla Florida dei pensionati e degli ispanici più conservatori di tutti, i cubani (lo stato nel quale è emersa la stella del Tea Party, Marco Rubio).

Alcune scelte dell’amministrazione sono molto indicative: ad esempio, difendere con le unghie e con i denti i posti di lavoro di alcuni specifici settori del manifatturiero, e promuovere una brillantissima deputata della Florida – Debbie Wasserman Schultz – a capo del Democratic National Committee. Sono scelte che mostrano un Obama ben cosciente delle situazione, e determinato a combattere con le sue armi.