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Decisioni politiche, incertezza e principio di precauzione

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Il “principio di precauzione” è nato dai dibattiti sulla tutela dell’ambiente, ma è poi debordato ben al di fuori del suo ambito originario. Si colloca all’intersezione tra le conoscenze scientifiche e le scelte delle autorità politiche, e può svolgere un ruolo importante nell’orientare queste ultime.

La formulazione più nota del principio si trova al Punto n.15 della Dichiarazione di Rio de Janeiro del 1992, redatta nel contesto del cosiddetto “Earth Summit”.

“In order to protect the environment, the precautionary approach shall be widely applied by States according to their capabilities. Where there are threats of serious or irreversible damage, lack of full scientific certainty shall not be used as a reason for postponing cost-effective measures to prevent environmental degradation.”

Si tratta, in altre parole, di un concetto che poggia su una visione particolare del termine “precauzione”: una visione proattiva. Proprio in virtù di questa caratteristica, il concetto è stato applicato in modo sempre più ampio. In tal modo, ha perso però una parte considerevole della sua coerenza interna.

Anzitutto, il principio viene richiamato in un duplice senso, quasi in modo intercambiabile. A volte lo si invoca per consigliare effettivamente una linea d’azione (precauzionale) in assenza di dati certi sulla necessità assoluta di intraprendere quelle azioni – è proprio il caso di scuola, potremmo dire, degli interventi a tutela dell’ambiente quando il grado esatto del suo deterioramento non è noto. Altre volte viene invece applicato per impedire determinate attività che potrebbero (senza certezza) risultare dannose – è il caso ad esempio della tecnica del fracking per l’estrazione dello shale gas. In questa seconda fattispecie il risultato è una “non azione” precauzionale. Così, un principio in apparenza onnicomprensivo e direttamente applicabile diventa fortemente discrezionale; dunque molto ambiguo e manipolabile al di fuori di ogni criterio obiettivo.

C’è poi un secondo problema di fondo che emerge nell’applicazione del principio di precauzione come strumento per migliorare i processi decisionali: la sua parziale contraddizione rispetto al metodo scientifico. Qualunque “consigliere del Principe” – non soltanto su tematiche che normalmente definiamo scientifiche – adotta le basi del metodo scientifico, pur adattandolo alle peculiarità delle materie “umanistiche” come la sociologia o l’economia. Si pensi alle attività di intelligence, che si incentrano proprio sul tentativo di fornire al decisore politico le migliori informazioni e analisi disponibili in situazioni che sono sempre e comunque di conoscenza incompleta e di dinamiche complesse. Attendibilità dei dati (delle fonti) e rigore del ragionamento sono gli elementi essenziali di questo lavoro.

È chiaro che un buon operatore di intelligence dovrà spesso confrontarsi con l’esigenza di dare in ogni caso il migliore parere possibile in condizioni di grande incertezza; potrà farlo mediante l’attribuzione di diverse probabilità ad eventi o dati, ma comunque dovrà in qualche modo supplire alla mancanza di certezze assolute. Ora, questo è precisamente il problema che ha di fronte lo scienziato (nelle cosiddette “scienze hard“); un problema che si risolve accettando e quasi abbracciando l’incertezza, cioè la natura provvisoria e parziale delle teorie – stante la possibilità di affinarle e migliorarle nel tempo.

Su questo sfondo, un’accezione estensiva del principio di precauzione può portare alla paralisi dei pareri “tecnici”. Il cosiddetto “esperto”, infatti, non avrebbe alcun incentivo a dare valutazioni precise (dunque per forza di cose probabilistiche) se il decisore fosse guidato comunque e soltanto da un concetto di cautela sganciato dal progresso graduale delle conoscenze. Se le scienze hard convivono costantemente con l’incertezza (senza fermare né la ricerca teorica né la sperimentazione, ove questa sia possibile), non si vede perché nel loro rapporto con le decisioni politiche esse debbano abbandonare questo approccio e di fatto abdicare. Né tantomeno perché dovrebbero farlo le discipline umanistiche, per loro natura meno hard.

In terzo luogo, per rendere operativo il principio resta comunque da identificare una soglia sopra la quale un dato scientifico possa considerarsi “certo”; ma quel è questo numero magico?

Si consideri una possibile applicazione rigorosa della “precauzione” a un rischio imminente di terremoto valutato al 25%. Sarebbe come dire, naturalmente, che una volta su quattro si verificherà quel fenomeno tellurico. Si dovrebbero allora prendere le misure “precauzionali” più estreme in ogni singola circostanza in cui il rischio è appunto valutato al 25% – cioè presumibilmente evacuare la zona potenzialmente interessata (oltre a chiudere scuole, uffici pubblici ecc.)?

Quel dilemma si pone anche rispetto al caso ipotetico di una probabilità di “solo” il 25% poiché la precauzione, nella logica dell’omonimo principio, è essenziale proprio rispetto a pericoli potenziali – e non soltanto certi. Pur assumendo dunque di disporre dei migliori pareri scientifici (nella realtà ben pochi sismologi sarebbero oggi disposti a indicare un numero percentuale con tale precisione in un caso concreto), una scelta altamente discrezionale sarà sempre lasciata al decisore politico. E dovrà tenere conto anche di altre considerazioni e di altri criteri. In realtà, si può anzi dire che il problema di ogni vera scelta sta nella valutazione e comprensione di rischi diversi e difficilmente comparabili, e non tanto nella quantificazione di un singolo rischio. Le scelte impongono dei trade-off e dunque richiedono un ragionamento di tipo relativo (precauzione contro alcuni rischi piuttosto che contro altri) invece che assoluto (precauzione o non precauzione).

Di fatto, dunque, il principio va necessariamente usato in modo selettivo – il che però contraddice l’obiettivo di partenza, cioè fornire al decisore un criterio semplice e quasi universale da adottare per cautelarsi da rischi che prefigurano vaste conseguenze.

Proprio tale ambiguità ha portato tra l’altro a effetti alquanto paradossali: l’amministrazione Bush all’indomani dell’11 settembre 2001 ha invocato ripetutamente una versione adattata del principio per sostenere l’esigenza – o meglio l’opportunità, a fronte di condizioni incerte e di rischi latenti ma molto gravi – di intervenire militarmente contro il regime iracheno nel 2003. La formula adottata sistematicamente dal governo americano in quel periodo era “errare dalla parte della cautela” per contrastare minacce possibili alla sicurezza nazionale, definendo però la cautela come “azione”. La discussione si deve spostare dunque su cosa sia “cauto” in una data situazione e in un dato ambito; è evidente, dal caso dell’Iraq nel 2003 (come da molti altri casi in parte analoghi), che si possono dare interpretazioni diametralmente opposte di un comportamento cauto. Dall’eccesso di zelo o dall’eccesso di prudenza dipendono molte vite umane, e a volte perfino il corso della storia nel lungo periodo.

L’essenza del processo decisionale è l’armonizzazione (parziale e temporanea) di obiettivi confliggenti in condizioni di risorse limitate – oltre che di conoscenze incomplete. Il principio di precauzione è un tentativo di creare una sorta di grande eccezione a questo mondo di incertezza, motivata dall’impatto macroscopico di eventuali danni dovute ad attività umane (come nel caso dell’ambiente). Il progresso scientifico è però decisivo proprio per affrontare le sfide dei cambiamenti indotti dall’umanità: i cambiamenti climatici come varie altre sfide globali del XXI secolo. E la scienza non progredisce certo limitandosi a indicare ai decisori gli scenari peggiori possibili; dal canto loro, i leader politici non possono ricorrere a scorciatoie per superare i dilemmi imposti dagli obiettivi multipli perseguiti dalle nostre società.

Dunque, il precautionary approach della Dichiarazione di Rio è un concetto molto utile su cui continuare a riflettere, anche in vista di grandi negoziati internazionali su questioni non ambientali. Conviene però applicarlo in modo accorto – con precauzione, potremmo dire.