international analysis and commentary

Crisi italiana, problema europeo e questione democratica per i sistemi occidentali

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Cosa ci dice la crisi italiana? Una crisi specifica e nazionale, certo. Ma forse qualcosa di più. Una crisi che, al di là della contingenza, deve portare a far riflettere anche sui rapporti sempre più complessi che intercorrono oggi tra capitalismo e democrazia, tra attori economici globali e Stati nazionali. Come anche tra moneta comune europea e  funzionamento delle democrazie europee in  presenza di distorsioni e/o asimmetrie fiscali tra gli Stati membri . Il dibattito si è finora incentrato soprattutto sulla sovranità e la sua erosione a spese degli stati nazionali. Ma un aspetto centrale del problema riguarda gli stessi meccanismi di funzionamento e la sostenibilità delle democrazie rappresentative, in particolare quelle fiscalmente vulnerabili, in un contesto in cui la forbice tra decisori ed esecutori si allarga e la capacità di “delivery” dei governi nazionali si è notevolmente ridotta.

Semplifichiamo. Il mondo globale ed Eurolandia (cioè le istituzioni europee e la Germania) sono oggi i “rule makers”: dunque impongono regole agli Stati nazionali o “rule-takers”. I “rule makers” euro-globali non sono però produttori di beni pubblici sufficienti a soddisfare le “constituencies” nazionali, né sono politicamente responsabili di fronte a queste ultime. Tali beni continuano a dover essere garantiti dai governi nazionali (unici responsabili di fronte agli elettorati), che tuttavia possono disporre in misura limitata delle risorse per soddisfarli a causa dei vincoli euro-globali, dell’incapacita’ di controllare i flussi in un’economia sempre più de-territorializzata. A maggior ragione in un contesto caratterizzato da una  bassa crescita generale europea e da una domanda sociale acutizzatasi a causa dei disagi e delle insicurezze provocate dal capitalismo globale e banco-centrico, come indica il movimento degli “indignati”.

Di qui allora la crisi di sostenibilità delle democrazie rappresentative che, in situazione di risorse scarse, devono affrontare vincoli esterni e interni sempre più pressanti. Si aggiunga a ciò che i tempi di risposta richiesti dagli attori economici globali ai governi nazionali contrastano con i tempi di decisione delle democrazie.

Come è possibile ridurre  queste tensioni che mettono a rischio la sostenibilità  delle democrazie nazionali, soprattutto quelle fiscalmente più vulnerabili ? Al di là delle risposte ovvie ed immediate – e cioè: occorre migliorare le governance nazionali o la governance dell’euro – si dovrebbe iniziare a riflettere  su come abbattere o almeno ridurre strutturalmente i rischi politici e sociali delle politiche economiche di rigore etero-imposte.  Prendiamo i casi di Spagna,Grecia ed Italia. Sono state individuate tre modalità  diverse di abbattimento/riduzione dei rischi politici. L’approccio spagnolo é stato quello del “rinvio” del rischio al governo successivo attraverso le elezioni anticipate; la Grecia ha per ora optato, dopo l’ipotesi referendaria, per la “condivisione” del rischio tra le diverse forze politiche; l’Italia ha optato per la “delega” del rischio a una squadra di tecnici non direttamente responsabile di fronte agli elettori. Ciascuna di queste soluzioni presenta le sue criticità. Le elezioni anticipate non risolvono i problemi economici di fondo, ma li posticipano; le larghe intese sono soggette alle imprevedibilità della polarizzazione politica interna; la delega tecnica pone il quesito “per quanto tempo”? 

Il capitalismo globale pone insomma strutturalmente sotto forte tensione le democrazie che soffrono di vulnerabilità fiscale. Le soluzioni sopraindicate non possono che essere temporanee. E’ allora possibile pensare in prospettiva ad una revisione di alcuni meccanismi  di funzionamento delle democrazie per ridurre strutturalmente i rischi politici ormai endemici al capitalismo globale? Ad esempio prevedere un unico mandato non rinnovabile  per  governi  e parlamenti onde liberarli dall’ossessivo  condizionamento dell’elettorato? Oppure immaginare che ciascun governo/forza politica si doti di una sorta di “panchina”, cioè una squadra tecnica pronta a subentrare in caso di allarme rosso? Gli stati nazionali  vivono tra l’altro nel paradosso di essere allo stesso tempo troppo piccoli per incidere nel capitalismo globale e troppo grandi e costosi per ottenere pagelle positive da parte degli attori economici globali,  o anche (è il caso dell’Italia) delle forze locali subnazionali.  Con il risultato di una gestione del consenso nazionale sempre più problematica.

Che fare? Il discorso, in Italia, si focalizza oggi sui costi, troppo alti, della politica, che rappresentano tuttavia solo una parte del problema, soprattutto simbolica. La sostanza del problema riguarda  piuttosto  i compiti degli Stati, le dimensioni dei governi e degli apparati pubblici. Le aspettative delle nostre società complesse nei confronti del  settore pubblico sono ormai sproporzionate rispetto alle possibili capacità di risposta di quest’ultimo, a prescindere dal governo del giorno. La questione da affrontare è quindi anche quella della giusta o della possibile dimensione dei governi nazionali, di una ridefinizione dei loro compiti e, in parallelo, di un adeguamento delle aspettative sociali. In estrema sintesi, il patto tra governi e società nelle nostre democrazie poggia su basi che sono state probabilmente superate dalla rapida evoluzione del contesto globale.