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Come parte la corsa repubblicana per la presidenza

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L’ordine non scritto per i candidati repubblicani alle primarie è quello di tenersi alla larga da George W. Bush. Alle elezioni del 2008 il senatore John McCain, repubblicano eterodosso, aveva già disegnato la sua campagna elettorale secondo il criterio della discontinuità verso il predecessore di Barack Obama alla Casa Bianca, sperando che prendere un’altra strada fosse sufficiente a far dissolvere nell’opinione pubblica la memoria di un presidente in calo di consensi.

Quando McCain diceva che “le cose sono completamente sfuggite di mano a Bush” faceva una critica congiunturale, aggiustava cioè la sua linea rispetto al vento sfavorevole del momento; ora che i candidati del Grand Old Party si stanno allineando per le elezioni del 2012, le critiche ai pilastri della dottrina Bush sono invece diventate tendenziali. La realtà economica ha cambiato l’ordine delle priorità e ha ridisegnato i confini delle varie proposte che i candidati possono presentare pubblicamente: aumento della spesa pubblica, aggressività in politica estera, ampliamento del budget del Pentagono, esportazione della democrazia, occupazione dell’Afghanistan a tempo indeterminato, sono alcuni degli argomenti che nemmeno i repubblicani più idealisti potrebbero sostenere senza giocarsi in un attimo tutte le chance di vittoria. La spesa pubblica fuori controllo e la disoccupazione al 9.1% sono dati di fatto che spazzano via all’istante i ragionamenti e le visioni di lungo periodo, anche quelli più illuminati.

Durante gli anni di Bush, l’ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney – il più forte fra i candidati che si sono presentati finora – non ha mai argomentato contro la politica estera del presidente, né ha mai avuto obiezioni rispetto a un approccio di taglio idealista su Iraq e Afghanistan. Nel 2009 era molto arrabbiato con la sinistra liberal che si lamentava per i 700 miliardi di dollari spesi “per conquistare la libertà” in Iraq, e soltanto un anno prima faceva discorsi impegnativi sul ruolo dell’America nel mondo: “I jihadisti combatterano qualsiasi forma di democrazia. Per loro la democrazia è blasfema perché in quella forma di governo i cittadini danno forma alla legge, e non Dio. Ritengono offensiva l’idea dell’uguaglianza umana. Odiano tutto ciò in cui noi crediamo circa la libertà così come noi odiamo tutto ciò che loro pensano sul jihad”. A Obama e Hillary Clinton rimproverava di volersi “ritirare e dichiarare la sconfitta”, una scelta che avrebbe portato “attacchi all’America lanciati da rifugi sicuri dei terroristi che al confronto l’Afghanistan sotto i talebani sembrerà un parco giochi”. Parole perfettamente iscritte nel solco della dottrina Bush, con la sua chiara divisione fra bene e male, le sue ragioni ideali, l’asse del male, la guerra al terrore e tutto il resto.

Con la crisi economica, l’arrivo di Obama alla Casa Bianca, l’ascesa della destra libertaria e isolazionista e l’emarginazione dei neoconservatori a Washington, le cose sono cambiate: le altezze dove una volta volavano i falchi (e non solo quelli repubblicani) sono diventate inaccessibili, e i candidati alle primarie devono dunque circumnavigare anche linguisticamente il terreno politico di Bush. Il congresso dei leader del GOP in Louisiana è stato di fatto una gara a discostarsi dalle idee economiche e di politica estera dell’ultimo presidente repubblicano. A Manchester, in New Hampshire, Romney ha esibito un interventismo più che accorto rispetto ai fuochi di un tempo: “Voglio che le truppe vengano ritirate non basandosi sulla politica né sull’economia, ma soltanto sulle condizioni sul campo di battaglia indicate dai generali”. La cosa ha fatto scattare immediatamente Ron Paul, nume tutelare del mondo “libertario” che vuole abolire la Fed, legalizzare l’eroina e ritirare le truppe americane ovunque siano di stanza: “Io prenderei le decisioni, e direi ai generali quello che devono fare. Porterei a casa tutte le truppe il più velocemente possibile”.

L’isolazionismo è una tentazione forte per tutti i candidati repubblicani, i quali sanno bene che gli elettori guarderanno soprattutto ai fattori economici, mentre la politica estera è destinata a scivolare in basso nella lista degli interessi; prima ancora dell’isolazionismo come strategia c’è insomma quello elettorale, fatto di slogan e parole d’ordine. In più c’è l’effetto bin Laden. Il raid di Abbottabad ha alimentato l’idea che per vincere contro al Qaeda ci sia una terza via fra l’occupazione boots on the ground e il ritiro senza condizioni, cioè il sistema di antiterrorismo fatto di droni che bombardano e squadre speciali che fanno operazioni chirurgiche. Intanto, il grosso dei soldati ritorna a casa, con sollievo delle coscienze e delle casse dello stato.

La logica della discontinuità repubblicana – che in realtà è una logica di continuità con la destra tradizionale pre-Bush – unisce tutti i candidati alle primarie, con gradi e caratterizzazioni diverse: lo si vede anche dalle proposte più strettamente economiche. L’ex governatore del Minnesota, Tim Pawlenty, sta scommettendo tutto su un piano economico che, sostiene il candidato, produrrà una crescita del 5% ogni anno (il piano prevede una riforma del sistema sanitario che metterà fine a quello che Pawlenty chiama “Obamneycare”, un sistema assistenzialista e sprecone all’incrocio fra quello che Obama ha ottenuto a livello nazionale e quello che Romney ha introdotto nel Massachusetts). Quello di Pawlenty è un’evoluzione del piano del capo della commissione budget alla Camera, Paul Ryan, che ormai è il benchmark per stabilire il grado di disciplina economica dei candidati. A bollare il piano di Ryan come “esperimento di ingegneria sociale di destra” è stato l’ex speaker della Camera, Newt Gingrich – vecchio volto di Washington ora entrato in crisi dopo che sedici dei suoi strateghi politici lo hanno abbandonato, perché lui rifiutava di seguire le loro indicazioni.

Michelle Bachmann, rappresentante del gruppo del Tea Party alla Camera, cerca di compensare la sua inesperienza con l’immagine di madre di 23 figli adottivi, compimento dell’immaginario “paliniano”. Rick Santorum, ex senatore della Pennsylvania è il custode dell’ortodossia conservatrice in fatto di questioni etiche. Anche lui però nel dibattito in New Hampshire ha usato molta cautela nel brandire i suoi argomenti preferiti e ha gettato via l’occasione di bacchettare il peso massimo Romney ricordandogli il suo voltafaccia sul tema dell’aborto.

Chi ha introdotto fattori inediti nello scenario repubblicano è Jon Huntsman, ex ambasciatore americano a Pechino che il 21 giugno ha annunciato la candidatura davanti alla Statua della Libertà, come Ronald Reagan. Huntsman ha idee moderate in politica estera (è per un ritiro sostanziale delle truppe dall’Afghanistan) e sulle questioni sociali, ma un record conservatore sull’economia. I repubblicani più duri lo rimproverano per aver accettato la nomina di Obama a Pechino, ma allo stesso tempo la sua allure para-obamiana potrebbe intercettare le passioni deboli di quell’insondabile elettorato moderato che può risultare decisivo. Le possibilità di Huntsman di vincere le primarie sono minime (i sondaggi dicono che la voce “tutti gli altri” ha un indice di gradimento più alto del suo) ma l’ingresso di una personalità inedita, eterodossa e dotata di una credibilità politica potrebbe incidere nel riposizionamento degli altri candidati. Nel GOP alla disperata ricerca di una figura carismatica che non c’è, e di una linea politica ortodossa ma in distonia con l’operato di Bush, Huntsman potrebbe essere l’uomo che cambia le carte in tavola a metà della partita.