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Com’è la Cina davvero: perché Grant sbaglia

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La Cina ha un’involuzione autoritaria, la Cina si chiude, aumenta la censura, la sua economia stenta, scoppia, diventa fascista, più comunista, razzista, nazionalista… e via sua questa linea. Il coro dei pessimisti, di quelli che non hanno speranze sul futuro del paese, resiste e insiste da più di vent’anni, e ogni volta lo fa citando una ricca messe di “fatti” che proverebbero la prossima apocalisse del continente cinese. Forse, alla lunga, qualcosa accadrà effettivamente alla Cina, ma se vogliamo restare più modestamente nell’arco delle verifiche storiche, di quello che è effettivamente accaduto, dovremmo cominciare coprendoci il capo di cenere e ammettere che finora tutti i profeti di disgrazia si sono rivelati falsi. Ciò non elimina la possibilità che qualche futuro profeta azzecchi la data dell’apocalisse, ma certo mette queste profezie in prospettiva.

Dopo questa premessa passerei invece ad altri fatti che indicano direzioni di marcia diverse da quelle dei vari profeti dell’apocalisse gialla.

A Pittsburgh in settembre il G8 è finito ed è stato varato il G20. Questa è una struttura enorme e di fatto non funzionale, contraria alla visione iniziale del G7 che prevedeva un piccolo gruppo di persone importanti che prendeva decisioni per tutto il mondo. In venti seduti a parlare, con dieci minuti di discorso a persona, ci vogliono tre ore e mezza per fare un semplice giro di tavolo. Una discussione seria è impossibile. Il G20 diventa così l’occasione per incontri bilaterali importanti, e di questi incontri bilaterali oggi il più importante è quello tra Usa e Cina, riconosciuto come tale da entrambi. Con una battuta si può dire che Pittsburgh ha fondato il G20 ma ha riconosciuto il valore nullo dello zero finale: il G20 deve in realtà leggersi G2.

Il 6 ottobre il premier cinese Wen Jiabao è tornato dalla Nord Corea con la promessa di Pyongyang di riavviare i colloqui a sei. Le promesse nordcoreane sono peggiori di quelle dei marinai, ma Pyongyang, Pechino e Washington sanno che stavolta non si torna a parlare se non si fa sul serio sul programma nucleare. Questo per la Nord Corea comprende il programma al plutonio e quello all’uranio: se Pyongyang non denuncerà e fermerà entrambi, passerà un inverno al gelo e alla fame. Se, come appare oggi probabile, la Nord Corea si metterà in riga, questo sarà il primo vero successso politico dell’amministrazione Obama portatogli non dall’Europa o da altri, ma dalla Cina. Inoltre, è noto che Washington e Pechino stanno discutendo dellla partecipazione cinese in Afghanistan, mentre i vari paesi europei stanno cercando vie di uscita dal loro intervento in Asia centrale.

Infine, negli scontri di piazza a Teheran in primavera, tra folle di sostenitori di Ahmadinejad (presidente uscente e rieletto) e Moussavi (candidato presidente e sconfitto per presunti brogli), i conservatori, anti-americani filo-Ahmadinejad hanno urlato non solo “abbasso gli Usa” ma per la prima volta anche “abbasso la Cina”. Questo era un segnale a Pechino, con cui Ahmadinedjad diceva alla Cina: non fateci pressioni come gli americani, o vi tratteremo come tali. Ciò dimostra che al di là del silenzio ufficiale a Pechino la Cina ha fatto pressioni sull’Iran. Queste pressioni non sono come quelle americane, certo, ma dovrebbero esserlo? Sarebbe utile a noi o a qualcun altro che lo fossero? Questo è materia da contendere, visto che tra gli occidentali stessi non v’è affatto certezza sull’utilità delle sanzioni.

Ancora: Taiwan. La questione che per anni era la prova aurea dell’aggressività di Pechino, la minaccia della guerra contro l’isola “ribelle”, si è dissolta in questi anni. Le minacce tracotanti hanno fatto posto a un’intesa sempre maggiore, sempre più calorosa tra i due lati dello stretto di Taiwan. Pochi però hanno deciso di contare questo sviluppo come un cambiamento di rotta politico. Lo stesso dicasi per il rapporto con il Giappone, dove già con il governo Aso si era trovata una formula per seppellire le controversie del passato. Oggi con il democratico Hatoyama le cose vanno ancora meglio: il 10 ottobre il neo-premier nipponico è arrivato a Pechino chiedendo di collaborare per formare un’unione asiatica sul modello di quella europea. I leader taiwanesi e giapponesi prendono lucciole per lanterne col proposito di stringersi a una Cina prossima alla svolta autoritaria? Sono schermi di fumo che mascherano complicati giochi di ombre e complotti orientali?

Di sicuro, è possibile. Quanto improbabile. Molto più facile che ci sia una trave nell’occhio di molti osservatori europei. L’Europa è a una stretta, non ha una politica verso la Cina o l’Asia, né come Unione né come singoli stati. È abbagliata dal riemergere di una Russia tutta diversa, da un Medio Oriente sempre più presente nelle stesse società europee attraverso l’immigrazione, e sempre più difficile da gestire o capire. È però sempre più secondo, o terzo, violino rispetto ai grandi sviluppi economici e politici che si sono spostati dall’Atlantico al Pacifico. Questo il vero problema centrale per l’Europa, e naturalmente dell’Italia, che dovrebbero cominciare a pensare all’Asia osservando la tendenza di fondo degli ultimi vent’anni. In due decenni la Cina è diventata più libera, ricca e democratica. Non è oggi libera, ricca, o democratica, ma si è mossa in questa direzione, e a meno di mutamenti catastrofici (che non ci sono finora stati) il processo continuerà. Questa dovrebbe essere una indicazione importante per la nostra politica verso la Cina, ove la volessimo davvero avviare.

D’altro canto, se non vogliamo una vera politica verso la Cina la migliore scusa è nasconderci dietro i fantasmi, o per alcuni le speranze, di una prossima implosione o  involuzione autoritaria del paese. Tale sviluppo ci caverebbe d’impaccio, e la Cina diventerebbe una bella storia di sangue e fango mentre i Soloni potrebbero gonfiarsi d’aria e dire: l’avevo detto. La storia recente però non è andata così, la Cina è diventata terza, ormai quasi seconda economia del mondo e sta allacciando rapporti sempre più stretti con Usa e Giappone mentre l’Europa rimane sostanzialmente al palo. Da italiano che vive in Cina da tanti anni, questa alla fine mi pare la storia che conta di più. Con o senza la nostra attenzione la Cina crescerà, e se l’Italia non si aggancia rapidamente a questa crescita avrà solo da perderci.

Further reading
Dibattiti cinesi di Charles Grant, Aspenia 46