Nel discorso in cui ha presentato alla Dieta le sue linee programmatiche, il 29 gennaio, il nuovo premier giapponese Shinzo Abe non ha neppure menzionato il nucleare civile. Due giorni dopo, nel question time al Senato, Abe non ha potuto eludere completamente domande specifiche in merito, limitandosi comunque a dire quello che tutti già sapevano: il piano energetico strategico compilato dal precedente governo, che prevede l’uscita dal nucleare civile entro la fine degli anni 2030, verrà sicuramente rielaborato. Esso non avrebbe infatti, nelle parole usate dal premier, alcuna base concreta; e crea preoccupazione nei circoli industriali, nelle municipalità che ospitano gli impianti sotto esame, nella comunità internazionale e in tutti i giapponesi che non sanno se e come riceveranno sufficienti forniture di energia elettrica. Se ne può dedurre che il Giappone abdica da quel ruolo di battistrada nella ricerca di una via nuova nel campo del nucleare civile che in molti, nel paese e all’estero, ritenevano si sarebbe assunto dopo il disastro di Fukushima.
L’ambiguità che si cela dietro affermazioni al momento generiche va collegata ad un calcolo politico dalle ricadute immediate: a luglio si svolgeranno in Giappone le elezioni per il Senato. Il Partito liberal-democratico di cui Abe è il presidente punta a stravincerle, come già è accaduto in dicembre alle consultazioni per la Camera Bassa. Poiché il 75% dei giapponesi guarda con diffidenza al nucleare, è meglio restare guardinghi per non perdere consensi. Ma la strada è già tracciata: una sorta di “ritorno al futuro” ovvero alle linee guida energetiche elaborate nel 2010, prima del Grande terremoto. Anche se qualche ritocco sarà inevitabile: verrà ad esempio ridimensionato l’obiettivo di coprire col nucleare il 50% del fabbisogno energetico nazionale. In sostanza si vuole riaprire il maggior numero possibile di centrali (al momento ne sono in funzione soltanto due su 50) e laddove possibile costruirne di nuove. Intanto aumenta la parte del bilancio del ministero dell’Industria destinato all’energia nucleare, che nel prossimo anno fiscale crescerà del 12% per raggiungere 156 miliardi di yen.
La parola d’ordine è fare presto a ridare ossigeno all’economia ed esorcizzare lo spettro del declino. Le riforme di lungo periodo invece non possono essere immediatamente remunerative. Intanto, per contenere il movimento antinucleare, che mostra comunque grande vitalità, si fa ricorso anche ad argomenti “ecologisti”: pur senza negare che il nucleare civile crei gravi pericoli ambientali (non solo radiazioni e smaltimento delle scorie, ma anche, ad esempio, consumo eccessivo di acqua) si sottolinea che oggi il nucleare serve a contenere l’inquinamento atmosferico. Va interpretata in questa chiave la recente dichiarazione fatta da Abe sulla impossibilità per il Giappone di rispettare l’impegno preso nel 2009 circa la riduzione entro il 2020 del 25% (rispetto al 1990) delle emissioni di CO2 nell’atmosfera.
Per Tokyo, incentivare le fonti rinnovabili e pulite di energia implica la modifica dell’attuale organizzazione del sistema di produzione, distribuzione e commercializzazione dell’energia elettrica, tutto concentrato nelle stesse mani. Il Partito democratico aveva impostato una riforma, ma è tutto da verificare come Abe voglia muoversi in questo campo, sul quale ovviamente gravitano interessi enormi. C’è da fare soprattutto i conti: a tale proposito il Giappone è molto attento a quanto sta avvenendo in Germania, dove la rinuncia al nucleare entro dieci anni sta producendo un grande sviluppo di eolico e solare ma anche un aumento della bolletta energetica. Una tendenza di questo tipo poco si armonizza con la principale priorità attuale del governo Abe: la riduzione immediata dei costi dell’energia in presenza di un deficit della bilancia commerciale lievitato – per l’acquisto all’estero di idrocarburi e carbone – fino alla cifra record di 6,9 trilioni di yen.
L’altra fondamentale motivazione del ritorno al nucleare è l’ importanza data al rilancio delle esportazioni per far ripartire la crescita: questa impone di puntare su settori hi-tech come appunto il nucleare, che è uno di quelli in maggiore espansione a livello globale e in particolare in Asia. Un settore in cui il Giappone ha pochi rivali considerando anche l’impegno profuso negli ultimi anni per la ricerca: prendendo come riferimento il 2010 il Giappone ha dedicato il 55% delle spese pubbliche per “ricerca e sviluppo” al nucleare – contro il 38% della Francia, il paese che più di ogni altro si affida all’atomo per produrre energia. Più che all’esempio tedesco il Giappone è tentato allora di guardare ai paesi che lo attorniano, nel contempo pericolosi concorrenti e lucrosi mercati in crescita; tutti sono favorevoli al nucleare. La Cina, afflitta da gravi problemi ambientali, si affida al nucleare pur essendo leader nel campo delle batterie solari. La Corea del Sud ha in programma di aggiungere altri undici reattori ai ventitré che già possiede e che coprono un terzo della produzione locale di energia. L’India non ha alternativa al nucleare e – quel che più conta – sembra disponibile ad una partnership col Giappone.
La necessità di far presto può strappare al Giappone il ruolo di battistrada anche sulla sicurezza degli impianti, alla quale l’opinione pubblica è particolarmente attenta. Sul miglioramento delle misure di sicurezza si è infatti pronti a investire, anche perché i costi sono in realtà inferiori a quelli dell’importazione di gas, petrolio e carbone – cresciuti notevolmente dal blocco del nucleare seguito a Fukushima. Le società monopolistiche che gestiscono, suddivise per prefetture e aree geografiche, la generazione e la distribuzione dell’energia in tutto il Giappone hanno visto in effetti raddoppiare la loro spesa annua per acquisti all’estero dal 2011: 6,8 trilioni di yen (85 miliardi di dollari) nell’anno fiscale 2012/13 contro 3,6 trilioni di yen nell’anno che precedette il disastro dello tsunami. Sulla sicurezza veglia l’Autorità per la regolazione del settore nucleare, istituita nel settembre scorso, che Abe sembra volere tenere in vita ed anzi potenziare, pur dando un diverso significato alla sua “indipendenza”. Questa infatti non dovrebbe configurarsi nei confronti della lobby nucleare, come speravano gli ambientalisti, bensì soltanto del governo. Anzi, l’industria nucleare dovrebbe secondo Abe avere maggiore voce in capitolo, non fosse altro perché depositaria di buona parte del sapere in questa materia. Ora l’Autorità è al lavoro per stabilire nuovi più appropriati sistemi di sicurezza sia per prevenire incidenti sia per affrontarli meglio di quanto sia avvenuto a Fukushima.
Le polemiche non mancano, specialmente per quanto riguarda il concetto di “faglia attiva”, cioè l’identificazione delle zone a maggiore rischio sismico. A seconda della interpretazione che si da al termine cambia infatti il numero di centrali da smantellare, tra le quali potrebbe figurare anche la più grande (con sette reattori), già pronta per la riattivazione, quella di Kashiwazaki-Kariwa. Oltre a ciò, la novità chiave dovrebbe essere l’obbligo di costruire una “stazione di controllo” ad adeguata distanza dalla centrale e di dotare i reattori di doppie ventole di raffreddamento. Il problema sono però i tempi: i nuovi criteri verranno codificati a giugno, e poi si dice che saranno necessari almeno tre anni per realizzarli. La prospettiva, considerando che a settembre chiuderanno per manutenzione gli unici due reattori in funzione, quelli di Oi (Fukui), è un ritorno all’opzione zero, come avvenne per due mesi l’anno scorso. Il contrasto con le aspettative di Abe è evidente.
Perfino il baluardo della sicurezza rischia pertanto di vacillare, così come un altro aspetto fondamentale della questione del nucleare civile su cui il Giappone potrebbe avere molto da dire ed eventualmente da insegnare: la partecipazione democratica. La bocciatura, il 22 gennaio, della richiesta di decidere attraverso un referendum la riapertura o meno della centrale di Kashiwazaki-Kariwa (prefettura di Niigata) sta infatti evidenziando la difficoltà di conciliare interessi locali e interessi nazionali. La linea che sta prevalendo, sgretolatosi con il Partito democratico il mito della partecipazione del basso, è che l‘ultima parola spetta al governo. Insomma – sul nucleare civile come sulle basi americane – vince la centralizzazione delle decisioni e delle responsabilità.