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Clinton versus Trump, e il futuro dell’analisi politica

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 Il confronto tra Hillary Clinton e Donald Trump è entrato, con il secondo dibattito televisivo, in una spirale purtroppo prevedibile: quella degli attacchi diretti e personali che si accostano molto all’insulto. I due candidati – naturalmente ciascuno con il proprio stile, e Clinton nel rispetto dei canoni dell’educazione – si sono accusati a vicenda di essere indegni di governare per ragioni non solo caratteriali ma per aver violato gravemente la legge e la comune morale. La spirale non si interromperà probabilmente neppure l’8 novembre con l’esito del voto, perché un clima del genere non si dirada in fretta.

È poco utile a questo punto valutare con precisione chi abbia “vinto” il dibattito secondo i normali criteri della comunicazione elettorale. È più produttivo guardare avanti, con qualche considerazione proprio sullo scollamento tra i tradizionali strumenti di valutazione – certamente quelli dei professionisti dell’analisi politica – e la campagna presidenziale 2016.

Un personaggio come Donald Trump ha catalizzato in modo ossessivo l’attenzione dei media a larga diffusione, lasciando quasi in disparte le valutazioni sulla solidità e coerenza dei programmi in senso tradizionale – costi e benefici, compatibilità con gli impegni presi dagli Stati Uniti finora, ecc. Per parte sua, Hillary Clinton (anche dopo aver sconfitto Bernie Sanders nelle primarie) è stata sottoposta a un continuo “esame di anzianità” (politico, psicologico, perfino clinico in certi momenti) per valutare quanto il suo passato le potrebbe costare in termini elettorali. È stata insomma analizzata “a prescindere da Trump”, potremmo dire.

Più che un confronto tra i due, si è fatto quindi un calcolo delle debolezze di entrambi, separatamente e in modo peraltro asimmetrico: la grande maggioranza dei professionisti della politica (e di “politiche”, nel senso di “policies”) capiscono bene Clinton, le sue capacità e le sue debolezze, ma in sostanza trovano misterioso e fuori luogo un personaggio come Trump.

Un secondo fattore di difficoltà è venuto dai sondaggi – classico strumento principale per collegare l’analisi “esperta” al gradimento dei potenziali elettori. I sondaggi sono ormai considerati meno affidabili di qualche anno fa: oltre ad alcuni errori previsionali importanti (si pensi a Brexit per fare solo un esempio recente), gli studi quantitativi sulle opinioni sono ovviamente sensibili alla volatilità delle scelte di chi viene sondato, e dunque per loro natura abbastanza instabili e incerti se osservati nel breve termine. Ora, in presenza di molti “undecided” e con continue sorprese mediatiche da parte di un candidato come Trump – cioè in presenza di alta volatilità – si deve adottare la massima cautela nel confondere i sondaggi con i trend, o la protesta e il livore con la stabilità del consenso.

È possibile che ci sia una forte corrispondenza tra i messaggi inviati dagli elettori e la loro volontà di sostenere un leader politico nel tempo, ma potrebbe anche non esserci; il vento può cambiare in fretta per tutti se la fonte del consenso è la paura, il risentimento, il disprezzo per un avversario. E questo vale per lo stesso Trump, che infatti sta già raccogliendo nel Partito Repubblicano ciò che ha seminato con il suo “hostile takeover”, ovvero soprattutto un sentimento di “ognuno per sé”. Così, si è di fatto mobilitata in modo stabile un’opposizione interna. Non è agevole per i sondaggi prevedere quanti altri esponenti repubblicani si sganceranno del tutto dal candidato ufficiale nei prossimi giorni, ma è già chiaro che alcuni conservatori dovranno ragionare in termini di una specie di “voto disgiunto” all’interno dello stesso GOP – visto che, come sempre, si vota anche per parte del Congresso e per una dozzina di Governatori. Un’altra peculiarità di questa tornata elettorale.

È entrato poi in gioco un fattore quasi scaramantico. È talmente “alieno” lo scenario di una presidenza Trump da lasciare una buona maggioranza degli osservatori attoniti e onestamente spaventati, fino a trascurare alcuni segnali eloquenti che indicano in realtà un trend consolidato: il candidato repubblicano è praticamente incapace di ampliare la sua base di consenso e rischia intanto ogni giorno – letteralmente, ogni minuto passato a fare esternazioni pubbliche – di perderne una piccola parte.

Un dato di fondo insomma è che Clinton è partita da una posizione di vantaggio significativo (pur non essendo mai stata altamente popolare) e ha dovuto amministrarlo; facendo appello a una sorta di prudente Realpolitik sia sui temi interni che su quelli internazionali, dispone di una maggioranza “naturale” nel Paese, ma certo non è riuscita, almeno fino ad oggi, a mobilitare tutta questa massa di elettori potenziali trasformandoli in voti. Trump ha invece cercato sistematicamente di far saltare il tavolo per compensare la sua inferiorità strutturale. Ma il tavolo può saltare anche a suo svantaggio, in qualunque momento, perché è lui che sta forzando i limiti del “politicamente accettabile”.

Su tale sfondo, i programmi di governo e le intenzioni dei candidati finiscono fatalmente in seconda o terza linea, e questo riduce ulteriormente il ruolo costruttivo degli analisti e degli osservatori professionali. È però anche un problema per il futuro dell’America, visto che sono molte le questioni spinose su cui non basta certo il “carattere” per dare risposte, mentre servono competenze, ragionevolezza e pianificazione. In questo senso, l’avversario Trump ha abbassato anche la qualità della candidata Clinton, non spingendola affatto ad affinare i suoi punti di forza e lavorare in anticipo sulle eventuali contraddizioni o le carenze dei suoi programmi.

Se si guarda alla politica estera, in particolare, il futuro Presidente degli Stati Uniti non ha dovuto neppure seriamente affrontare, in campagna elettorale, la complessità dei conflitti violenti in corso e di quelli che potrebbero sorgere nel prossimo futuro.

Dopo aver lodato a più riprese lo stile di governo di Vladimir Putin, il candidato repubblicano ha dichiarato nel secondo dibattito di non sapere nulla della Russia – forse alludendo alla propria verginità politica, ma comunque in modo bizzarro. E ha adottato, una volta di più, una deliberata leggerezza qualunquista  nel liquidare il dossier siriano: mentre continua l’assedio di Aleppo, Trump si è limitato a riassumere le sue posizioni notando che “Assad is killing ISIS. Russia is killing ISIS. Iran is killing ISIS”.

Se solo fosse così semplice.