Cina e Giappone sembrano procedere in parallelo nella lotta contro il terrorismo di matrice islamica, rinvigorendo la tendenza condivisa da entrambi ad ampliare presenza e influenza in aree lontane dai propri confini e in particolare nel cruciale settore Medio Oriente – Africa. Sono invece profondamente divisi per quanto riguarda origini e motivazioni di tale impegno.
Per Pechino si tratta di una scelta che nasce dalla volontà di porre termine alle turbolenze nello Xinjiang, nella Cina nord-occidentale, e dalla convinzione che le frange più radicali dell’opposizione uighura in quella regione, come il Partito Islamico del Turkestan (TIP), siano legate ai movimenti fondamentalisti che operano nei Paesi dell’Asia Centrale e del Medio Oriente. Ne costituirebbe una prova l’accusa di calpestare i diritti dei musulmani all’interno dei propri confini rivolta a Pechino già nel 2014 dal califfo Abu Bakr al-Baghdadi.
Per Tokyo determinante è invece quella revisione della politica estera in chiave nazionalistica perseguita dal premier Abe Shinzo che è sfociata nelle nuove leggi sulla sicurezza approvate nel settembre 2015 e destinate a diventare operative a marzo. Queste leggi – attraverso la formula della “autodifesa collettiva” che potrebbe concretarsi in un sostegno alle operazioni americane in aree di crisi – conferiscono al Paese inusitata visibilità internazionale, fino a renderlo anche bersaglio delle minacce dello Stato Islamico (ISIS): sul magazine Dabiq, attraverso cui l’ISIS parla al mondo, è così apparso di recente un monito esplicito: “Il pagano Giappone faccia attenzione a non mettere in pericolo la vita dei suoi cittadini a causa del sostegno alla crociata americana”.
Secondo le autorità cinesi, uomini del TIP combattono al fianco dell’ISIS o di altri gruppi anti-Assad in Siria e Iraq; inoltre il terrorismo nello Xinjiang è sostenuto spiritualmente ed è diretto materialmente da organizzazioni estremiste straniere. Ne deriva una equazione tra Stato Islamico e indipendentismo uighuro che spinge Pechino a rinunciare al dogma della non-ingerenza. Anche se continua a muoversi con circospezione, come indicano gli inviti alla moderazione rivolti nelle ultime settimane a Iran e Arabia Saudita, ora la Cina è avviata, sul fronte siriano, ad assumere posizioni filointerventiste, in contrasto con la prassi seguita nel 2011/12 quando la crisi ebbe inizio.
Ne è un segno l’allineamento con la Russia di Vladimir Putin, non in nome della difesa del regime di Bashar al-Assad, bensì per non aprire spazi a “santuari” terroristici. Contano ovviamente anche la sicurezza energetica del Paese, che importa dal Medio Oriente quasi la metà del proprio fabbisogno di idrocarburi, e la protezione di investimenti e cittadini cinesi nella regione. Può poi non dispiacere ai cinesi evidenziare tutti i limiti che gli Stati Uniti incontrano nell’imporre una soluzione ai problemi mediorientali, terrorismo in testa.
Ma soprattutto l’abbandono della non ingerenza appare un inevitabile corollario di quella proiezione di potenza che la Cina, per via commerciale, diplomatica e militare, sta perseguendo ben al di là delle preoccupazioni legate al terrorismo. In gioco è il piano strategico che passa attraverso la doppia via della seta, terrestre e marittima, la ricerca di basi (dal Pakistan a Gibuti), e l’accresciuto impegno sul terreno delle missioni di peacekeeping, annunciato in pompa magna dal presidente Xi Jinping a Washington a settembre con l’istituzione di un corpo permanente di 8.000 uomini.
Certo, a preoccupare Pechino è soprattutto la rapida, parallela crescita nella versione interna e internazionale dell’estremismo islamico, spesso rappresentato attraverso la triplice veste di terrorismo, separatismo e fondamentalismo religioso. In novembre l’ISIS ha ucciso un cittadino cinese catturato nella provincia di Anbar (Iraq). Successivamente altri cittadini cinesi sono rimasti implicati nell’azione terroristica all’hotel Radisson di Bamako in Mali. Poco prima, a settembre, un commando aveva attaccato una miniera di carbone nello Xinjiang: un evento senza precedenti che ha provocato decine di vittime.
La legge antiterrorismo approvata a fine dicembre dal Congresso nazionale del popolo ed entrata in vigore il primo gennaio di quest’anno rappresenta una precisa risposta a questa situazione. Infatti non si limita ad accentuare gli strumenti direpressione e di controllo di ogni attività sul territorio nazionale (con specifici obblighi a società di telecomunicazioni), ma autorizza anche le forze armate a prendere parte a operazioni antiterrorismo in qualunque parte del mondo. La nuova legge eleva il terrorismo a priorità per la sicurezza nazionale dandone una definizione molto generica e includendovi ogni atto mirantea sovvertire l’ordine costituito.Vietando alla stampa di fornire notizie dettagliate sugli attacchi terroristici, si offre poi una nuova base legale a una ferrea censura e, malgrado le autorità cinesi abbiano assicurato che la norma si ispira ad analoghe leggi varate in Occidente (a partire dal Patriot Act americano), l’iniziativa ha suscitato le critiche delle associazioni che difendono i diritti dell’uomo e una preoccupata reazione da parte della Casa Bianca.
Anche in Giappone si parla di nuove leggi antiterrorismo, e come in Cina si pensa a rafforzare i controlli: espansione delle intercettazioni, monitoraggio di internet, introduzione del reato di cospirazione in modo da potere intervenire prima che atti criminali siano effettivamente commessi. Ma Abe ha preferito rimandarne l’eventuale approvazione a dopo le elezioni per il parziale rinnovo del Senato della prossima estate. Sia l’opinione pubblica – almeno quella più orientata a vedere nelle scelte di Abe ombre di autoritarismo – sia il partner minoritario di governo (il partito di ispirazione buddhista Komeito), guardano infatti con sospetto alla linea dura che il partito liberaldemocratico vorrebbe seguire.
Come per la Cina, ma con qualche mese di anticipo, anche per il Giappone è stata l’uccisione di due connazionali da parte dello Stato Islamico, nel gennaio 2015, a porre alla ribalta la questione del terrorismo. E come per la Cina, i progetti in cantiere si sono trasformati in decisioni pratiche dopo gli attentati parigini del novembre scorso. Abe è partito all’attacco sostenendo che il Giappone deve rafforzare la sicurezza interna e dotarsi di più incisivi strumenti di investigazione, in vista del G7 che sarà ospitato a maggio nella prefettura di Mie e delle Olimpiadi del 2020, nonché della riattivazione delle centrali nucleari fermate per precauzione dopo la triplice fusione di Fukushima del 2011 e in passato sorvegliate in modo molto superficiale. Così ha ordinato che diventi subito operativa – e non nel prossimo aprile come previsto inizialmente – l’unità di crisi del Ministero degli Esteri chiamata a raccogliere informazioni di intelligence provenienti dall’esterno. Nel contempo è stato deciso di dotare di specialisti di terrorismo le ambasciate nei Paesi a rischio, di favorire lo scambio di informazioni tra le diverse istituzioni, di introdurre più stretti controlli sugli immigrati alle frontiere.
La grande differenza rispetto alla Cina è che in Giappone non ci sono focolai di terrorismo interni; neppure gli immigrati (in totale quasi un milione ma pochissimi di religione islamica) per ora non costituiscono un problema in tal senso e la difesa degli “obiettivi sensibili” interni poggia solo su un astratto timore che il Giappone diventi bersaglio del terrorismo internazionale.
L’attenzione – in modo più evidente rispetto al caso cinese – si sposta allora inevitabilmente sulla decisione di fare del Giappone un perno della lotta al terrorismo condotta dalla comunità internazionale. Ciò avviene grazie alle proiezioni esterne delle Forze di autodifesa, ormai consentite dalla legge e approvate sia dai principali alleati sia da ampi settori dell’opinione pubblica, specie se è in gioco la protezione dei lavoratori giapponesi all’estero.
La guerra al terrorismo insomma non è una concausa dell’abbandono di una consolidata prassi diplomatica come nel caso cinese, bensì la conseguenza del ribaltamento degli obiettivi strategici. È significativo che, come sul modello americano è stato creato l’anno scorso un Consiglio per la sicurezza nazionale, ora si pensi a un’agenzia di intelligence paragonabile alla CIA o all’MI6 britannica. Anche gli incontri 2+2 tra i ministri degli Esteri e della Difesa di Giappone e Gran Bretagna avvenuti a Tokyo ai primi di gennaio hanno mostrato che su questi temi ci si sta muovendo con rapidità.
Da incomodo fa però l’aleggiante spirito della guerra fredda in chiave asiatica. In nome della comunanza di obiettivi tra Giappone e paesi della NATO, ogni forma di collaborazione con l’Occidente sembra a portata di mano. Ma, anche di fonte alle minacce dell’Isis, la Cina resta per ora dall’altra parte della barricata.