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Chi vota e chi non vota alle elezioni presidenziali

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Quanti cittadini voteranno alle ormai imminenti elezioni negli Stati Uniti? Non è difficile fare una previsione di massima, sulla base del passato immediato. Secondo le stime del US Census Bureau, alle elezioni presidenziali di quattro anni fa andò alle urne il 63,6% dei potenziali aventi diritto al voto, una percentuale coerente con quella della tornata presidenziale precedente, nel 2004, e un poco superiore a quella del 2000 e del 1996 quando, in entrambi i casi, non arrivava a toccare il 60%. Questo è anche l’ordine di grandezza che è lecito aspettarsi il prossimo 6 novembre. (Alcuni sondaggi sembrano predire un qualche calo, soprattutto fra i giovani, ma vedremo.)

Si tratta, come è noto, di uno dei tassi di affluenza alle urne più bassi fra tutte le democrazie occidentali, anche se in tutte sembra manifestarsi una tendenza generale alla diminuzione dell’elettorato attivo dello stesso tipo. Periodicamente qualche osservatore lancia un allarme preoccupato, soprattutto tenendo conto che le elezioni presidenziali sono le più partecipate in assoluto; alle elezioni congressuali di medio termine il tasso scende intorno al 45%. Un editoriale del New York Times del novembre del 1988, ormai un quarto di secolo fa, si chiedeva già nel titolo se il governo del paese non fosse diventato un “Government of (Half) the People”. Ma la preoccupazione non sembra essere troppo assillante.

In effetti la bassa partecipazione ha strutturato la politica americana da almeno un secolo, da quando negli anni Venti del Novecento scese sotto il 50%. E da allora molti sono stati coloro, osservatori, intellettuali, scienziati politici, che ne hanno dato interpretazioni ottimistiche e rassicuranti. Basti pensare alla tradizione consolidatasi negli anni cinquanta, quando il politologo Seymour Martin Lipset scrisse: “è possibile che il non-voto sia oggi, almeno nelle democrazie occidentali, un riflesso della stabilità del sistema”, una prova della soddisfazione dell’elettorato per lo stato delle cose. Basti pensare alla definizione coniata allora di “politica della felicità” (chi è felice non vota).

C’è stato anche, naturalmente, il controcanto di voci critiche e pessimiste, di chi vede la scarsa partecipazione come un problema. Già nel 1960 fu un altro politologo, E.E. Schattschneider, a sostenere che il non-voto è il “ventre molle” del sistema: è il risultato di un sistema politico-sociale che limita le alternative politiche a disposizione degli elettori, e che emargina schiere consistenti di cittadini che non si sentono né rappresentati idealmente né difesi nei loro interessi. Negli stessi anni, nel pamphlet L’altra America, lo scrittore e attivista Michael Harrington trovava nella relazione fra povertà e non-voto una delle ragioni per cui i poveri sono politicamente invisibili.

Le analisi critiche sono confermate dalla ricerca sociologica e storica. L’assenza dalle urne non è socialmente neutra. Tocca sì tutti gli strati della popolazione, ma acquista un carattere patologico nelle sue fasce più povere e meno istruite. La correlazione fra reddito e istruzione, da una parte, e partecipazione elettorale dall’altra, è diretta e assai visibile. Accade così che in un elettorato presidenziale che comprende, come si è detto per il 2008, circa il 64% degli aventi diritto, chi ha i redditi più bassi voti al 52%, mentre chi ha i redditi più alti voti all’80%. E che chi non raggiunge un diploma di high school voti al 39%, mentre chi ha un’istruzione universitaria avanzata voti all’83%.

Insomma, a non votare sono, per usare un termine ottocentesco, le lower classes. Questi dati sottolineano almeno due paradossi impliciti nelle interpretazioni ottimistiche e di fatto celebrative del non-voto. Il primo riguarda la dottrina della politica della felicità: a essere più felici, più soddisfatti di come va il mondo sarebbero proprio coloro che meno ne sono premiati, i poveri appunto. Il secondo paradosso riguarda l’atteggiamento degli intellettuali che quelle interpretazioni hanno proposto: quando essi, che sono molto istruiti e votano molto, celebrano il non-voto, celebrano in effetti il non-voto degli altri, delle “classi inferiori” appunto.

Non è sempre stato così. La diserzione delle urne e la stratificazione sociale dell’elettorato non sono dati naturali della democrazia americana, bensì prodotti di trasformazioni storiche. Nell’Ottocento l’affluenza alle elezioni presidenziali raggiungeva percentuali dell’80-85%, e i ceti popolari del tempo votavano più delle classi alte. Il cambiamento, la vera e propria inversione di tendenza è cominciata dopo il 1900, per cause complesse che gli storici hanno studiato, e che non possono essere discusse qui. Vale la pena, tuttavia, suggerire una delle sue possibili conseguenze, che getta luce su alcune accesissime controversie di questi ultimi anni – e di questi ultimi mesi e giorni.

La questione delle politiche sociali federali si è posta negli Stati Uniti quando già il non-voto class-skewed era un dato strutturale della vita pubblica, negli anni Trenta del New Deal e negli anni Sessanta della Great Society. Non dovrebbe sorprendere allora che il welfare state americano sia storicamente nato e rimasto un welfare state limitato, “riluttante” a includere tutti, tutt’altro che universale. E non dovrebbe sorprendere che i tentativi di renderlo tale, almeno dal punto di vista della copertura dell’assicurazione sanitaria, siano stati a lungo sconfitti (ultimo caso, il progetto di riforma Clinton del 1993), e comunque siano stati e siano oggetto di durissime controversie in Congresso e nelle urne da parte di un elettorato che universale non è.

È davvero possibile introdurre e mantenere un sistema universale di sicurezza sociale in un paese democratico, basato sul consenso dei governati – in cui il suffragio non sia esercitato in maniera universale dai governati stessi? Ovvero, sono politicamente praticabili e difendibili nel mercato elettorale le scelte di governo che mirano a ridistribuire risorse pubbliche a favore dei cittadini più poveri – in una polity in cui i diretti beneficiari di quelle scelte votino pochissimo e siano quindi ai margini del mercato politico della rappresentanza? Da qui potrebbero derivare le difficoltà e i guai della riforma sanitaria del presidente Obama, e in effetti della prossima presidenza, chiunque sarà a vincere il 6 novembre.

 

 

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