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C’è una mano esterna dietro gli attentatori di Parigi?

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Con il passare delle ore e dei giorni, è utile porsi dei quesiti riguardo alla genesi dell’attentato di Parigi anche in chiave di prevenzione e contrasto a possibili ulteriori minacce. Una domanda fondamentale riguarda il grado di autonomia del piccolo gruppo che ha agito in modo così letale e feroce.

Da un lato, la scelta del bersaglio è stata precisa e ragionata; inoltre le immagini mostrano drammaticamente una certa freddezza operativa e nessuna esitazione nell’uso rapido della violenza da parte degli attentatori. Dall’altro, però, i probabili membri del commando sono stati quasi immediatamente identificati e sembrano comunque aver commesso alcuni errori banali.

Un’ipotesi che spiegherebbe questa apparente contraddizione è una guida a distanza, per così dire – altri individui o una vera organizzazione che abbia diretto e sostenuto gli attentatori, fornendo un qualche appoggio ma lasciando poi il gruppo a se stesso.

C’è insomma una regia precisa che ha mosso e guidato il commando, e che può fare altrettanto in futuro? È certamente possibile. Sappiamo che la galassia del terrorismo jihadista è ampia e frammentata, ma anche che ha trovato un elemento unificante nelle guerre civili prolungate e sanguinosissime in corso sia in Iraq che in Siria. È presto per dire se la “vecchia” Al-Qaeda stia tentando un rilancio proprio con l’attacco francese (come suggeriscono alcuni indizi), in alternativa diretta al cosiddetto Stato Islamico, anche noto come Califfato. È comunque plausibile che la competizione tra le diverse correnti del jihadismo, incentrata sui territori a cavallo tra Siria e Iraq, stia purtroppo fornendo nuova linfa a vari gruppi sparsi anche sul suolo europeo, grazie a linee di collegamento con il Medio Oriente. Si tratta in parte dei temuti guerriglieri di origine europea, “di ritorno” dopo aver ricevuto un qualche addestramento paramilitare all’estero.

Più che un’entità “centrale” in grado di agire da località remote è però probabile che siamo di fronte a una rete di facilitatori a supporto di gruppi di volontari. In altre parole, dove il terreno è già fertile per azioni violente con motivazioni estremiste – per dinamiche magari strettamente locali – i piccoli gruppi beneficiano di appoggi organizzativi, forse fonti di intelligence e consulenze tecniche sia interne che esterne.

In presenza di una proliferazione di sigle ispirate genericamente alla militanza jihadista più estrema (e perversa, dal punto di vista culturale e religioso), dobbiamo aspettarci vari tipi di ibridazione anche nelle forme del terrorismo: azioni realmente isolate e poco sofisticate, iniziative di piccoli gruppi con legami transnazionali solo indiretti e poco intensi, operazioni più complesse e potenzialmente più letali come quella di Parigi, e prima di New York nel 2001, Madrid nel 2004, Londra nel 2005.

Le indagini sono ancora in una fase iniziale e il quadro si farà forse più chiaro quando avremo maggiori informazioni sui movimenti recenti dei membri del commando; resta comunque il fatto che le possibili minacce terroristiche sono diventate variegate, non ripetendo gli stessi schemi operativi a distanza di poco tempo.

Oltre a ricorrere alla stretta collaborazione tra gli apparati di sicurezza occidentali, sarà allora necessario, ancor più che in passato, aggiornare costantemente le conoscenze sui nuovi fenomeni jihadisti e adattare le contromisure a tecniche terroristiche in parte innovative.

 

Una versione di questo articolo è stata pubblicata sul quotidiano Il Mattino.