Dalle urne che avrebbero dovuto consacrarlo come “padre della patria” catalana indipendente, il presidente della Generalitat Artur Mas è uscito, invece, gravemente ridimensionato. La sua formazione, la federazione nazionalista di centro-destra Convergència i Unió (CiU), ha ottenuto il peggior risultato di sempre alle elezioni regionali, ad eccezione di quelle del 1980, le prime dopo la fine della dittatura: all’epoca CiU inaugurò il suo lungo ciclo di governo sotto la guida di Jordi Pujol, interrottosi solo nel periodo 2003-2010.
Nelle intenzioni di Mas, il voto anticipato del 25 novembre avrebbe dovuto dare a CiU la forza sufficiente a portare a compimento il suo disegno soberanista: dotare la Catalogna di uno “stato proprio”. Una sfida all’esecutivo di Madrid e all’assetto costituzionale spagnolo lanciata, secondo alcune letture, per raggiungere un obiettivo assai più realistico: un nuovo regime di autonomia fiscale pressoché totale, equivalente a quello attualmente in vigore nei paesi baschi e in Navarra. E tuttavia una sfida storica, altamente destabilizzante sul piano simbolico e materiale. Per questa ragione, la campagna elettorale è stata vissuta con un’intensità senza precedenti, che si è riflessa nella più alta affluenza mai raggiunta in elezioni per il Parlamento catalano (il 69,6%, ben 11 punti in più del turno precedente di due anni fa).
Il pesante arretramento di CiU (si conferma primo partito al 30,7%, ma perde circa l’8% rispetto al 2010) ha messo in luce che, lungi dal seguire massicciamente il presidente Mas nel suo annuncio quasi-messianico dell’indipendenza, la cittadinanza catalana ha voluto punire l’amministrazione uscente. Non può non aver pesato, come nel resto della Spagna, il giudizio sul modo di affrontare la crisi economica che, anche nella regione di Barcellona, è stato all’insegna dell’austerità. Costata al governo della Generalitat, ancor prima che la sanzione nell’urna, conflitti sociali molto intensi, che hanno evidentemente contribuito a formare un clima di insoddisfazione nell’opinione pubblica.
Se dunque la scommessa di CiU sulla questione nazionale come strategia di diversione dal malcontento anti-austerità non si è rivelata vincente, ciò non significa che il sentimento indipendentista sia da considerare ridimensionato. Non è cresciuto, ma non si è nemmeno ridotto. A dimostrarlo è il risultato di Esquerra Republicana de Catalunya (ERC): ha raddoppiato i consensi, passando dal 7% del 2010 a poco meno del 14%, ed è diventata la seconda forza politica per numero di seggi ottenuti – pur essendo terza di pochissimo per numero di voti assoluti, dietro il Partito socialista (PSC).
Nella piattaforma della sinistra repubblicana, la secessione dal resto della Spagna è difesa ancora con maggiore nettezza rispetto a quanto faccia CiU – e non da oggi: ERC è un partito da sempre fautore del distacco da Madrid. In passato, aveva moderato tali posizioni in favore di un avvicinamento alle sinistre non nazionaliste, rendendo possibile la coalizione tripartito (con i socialisti e il referente catalano di Izquierda unida) che ha governato la Catalogna dal 2003 al 2010.
La Esquerra republicana di oggi, con una leadership completamente rinnovata, è tornata ad essere una forza nella quale il carattere nazionalista e indipendentista pesa di più di quello progressista nell’orientare le scelte strategiche. E tuttavia, il suo posizionarsi “a sinistra” le ha consentito di raccogliere il consenso di quegli elettori che si considerano indipendentisti ma, al tempo stesso, sono anche oppositori della politica economica e di bilancio di Artur Mas, molto simile a quella di Mariano Rajoy a Madrid: comune ai due governi, infatti, al di là delle divergenze “nazionali”, è la filosofia economica di stampo neoliberale.
Oltre a CiU, escono sconfitti dal voto anche i socialisti del PSC (branca catalana del PSOE, ma formalmente indipendente), ormai molto lontani dalla forza che avevano sino a un lustro fa. Dal ritorno della democrazia in avanti, infatti, il Partito socialista alle regionali in Catalogna aveva sempre raccolto consensi alti (intorno al 30%), rappresentando la seconda gamba dell’assetto bipolare della politica catalana. Già nel 2010 era precipitato al 18%, mentre ora cala ulteriormente ad un inaudito 14,4%. Un anno dopo l’uscita di scena dell’ex premier José Luis Rodríguez Zapatero, continua a manifestarsi una sorta di effetto-punizione per la crisi economica, al quale si aggiungono, però, cause legate alla dimensione locale. Non si spiegherebbe come mai, altrimenti, i socialisti nelle ultime tornate regionali abbiano avuto risultati contraddittori: una tenuta in Andalusia e Asturie a fine marzo, un cedimento nei Paesi baschi a ottobre.
A penalizzare così pesantemente il PSC è l’incertezza con la quale tale partito si muove nel dibattito sulla questione nazionale, diviso tra un’anima “catalanista” e una “spagnolista”, tenute insieme dal sostegno ad un’opzione federalista dai contorni poco definiti. Privo di una leadership forte come quella che seppe esercitare in passato l’ex sindaco di Barcellona Pascual Maragall, primo socialista a diventare (nel 2003) presidente della Generalitat, il PSC non riesce ad articolare un progetto federale che risulti interessante agli occhi dell’indipendentismo moderato e, al tempo stesso, non sospetto di cedimento al secessionismo per i fautori dell’assetto attuale. Una situazione di impasse dalla quale il PSC potrebbe uscire soltanto se avesse la forza – che non ha – di spostare l’asse del discorso politico sui temi economico-sociali.
In una posizione diametralmente opposta alla Esquerra republicana, guadagna lievemente consensi il Partido popular (PP), che non riesce nel sorpasso dei socialisti (si ferma al 13%) ma esce rinforzato dalla consultazione, perché non subisce nessuna sanzione per la politica di Mariano Rajoy. Un segnale del fatto che il diffondersi del discorso separatista ha suscitato una contro-reazione di difesa energica delle ragioni dell’unità della Spagna, probabilmente sottovalutato dai sondaggi della vigilia. Che non hanno saputo prevedere, infatti, un dato ancor più significativo di quello del PP: il vero e proprio exploit di Ciutadans (7,6%), una lista apertamente “unionista” e anti-nazionalista, ideologicamente indefinita sull’asse destra-sinistra, che aumenta di più del doppio il proprio consenso rispetto al 2010.
I rapporti di forza tra i fautori della separazione da Madrid e i difensori della Catalogna “spagnola” sono, dunque, rimasti complessivamente inalterati. L’indebolimento di CiU e della leadership di Mas, tuttavia, rendono oggi più difficile che il disegno separatista possa avanzare, come sembrava invece quasi certo prima del voto: il presidente uscente ha indiscutibilmente perso la sua scommessa.
Prima di tirare un sospiro di sollievo, però, a Madrid (e a Bruxelles) dovranno attendere gli sviluppi degli incontri fra i partiti per decidere della formazione del nuovo governo a Barcellona. Se CiU andasse incontro alla sinistra repubblicana di ERC nella revisione delle politiche di austerità, i numeri in parlamento per una coalizione indipendentista ci sarebbero. E il conflitto con lo stato centrale si riproporrebbe di nuovo.