international analysis and commentary

Caro Sinai, la crisi viene da lontano

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Condivido la diagnosi della crisi e le critiche ai modi in cui è stata affrontata contenute nell’intervista di Allen Sinai. Essa, tuttavia, soffre di entropia; è una crisi vista dall’interno che non risale alla genesi della stessa, anche se Sinai la sfiora in alcuni punti che, però, subito abbandona. Esiste infatti un’interpretazione genetica e una partogenetica, entrambi utili ma non circolabili separatamente. Nelle centinaia di scritti sulla crisi l’interpretazione è del secondo tipo, ossia scaturisce dall’interno delle istituzioni e ritiene che le regole del gioco siano state inadeguate e i giocatori avidi e miopi. L’origine della crisi va ricercata invece fuori delle istituzioni, che sono state plasmate dalla politica economica interna e internazionale seguita dagli Stati Uniti con il consenso (o solo qualche borbottio) del resto del mondo. In un mio recente scritto in corso di pubblicazione ho distinto genesi da partenogenesi proponendo il seguente schema interpretativo. La “funzione di utilità” in materia economica degli Stati Uniti presenta una sola variabile: il saggio di crescita della domanda interna. Le autorità politiche e tecniche perseguono questo obiettivo a prescindere dalle implicazioni che una crescita sostenuta ha sulla loro bilancia dei pagamenti con l’estero. Gli Stati Uniti non accettano il vincolo esterno al quale tutti gli altri paesi in deficit devono sottostare; possono fare ciò perché il dollaro è la moneta principale degli scambi mondiali e delle riserve ufficiali e private estere, condizione che garantisce l’assorbimento esterno dell’eccesso di loro creazione monetaria e di parte significativa dell’offerta americana di ogni specie di titoli di credito. Questa condizione viene egregiamente sintetizzata con l’affermazione, ripetuta a livello ufficiale, che il dollaro è la loro moneta, ma un problema del resto del mondo.

Gli Stati Uniti, forse senza avere piena coscienza delle implicazioni geoeconomiche e geopolitiche delle loro scelte, hanno permesso la liberalizzazione degli scambi lasciando ai paesi libertà di scelta del regime di cambio. Ciò ha indotto la Cina a praticare cambi fissi, accumulando ingenti riserve che inizialmente erano al servizio del deficit statunitense, poi hanno creato problemi all’euro a seguito delle conversioni di dollari in questa moneta e, infine, hanno iniziato ad affacciarsi prepotentemente sul fronte geopolitico con gli investimenti effettuati dai fondi sovrani di ricchezza.

La ricerca spasmodica di uno sviluppo “sostenuto” (ma non sostenibile) è parte integrante del “sogno americano”. Dopo aver sperimentato l’intervento pubblico per creare la “Grande società” di Kennedy e Johnson, si è fatta strada una filosofia iperliberista da Reagan in poi, che ha avuto momenti diversi di intensità raggiungendo il massimo nel settore delle innovazioni finanziarie. Va ricordato, tuttavia, che questa politica era accompagnata da una rigorosa gestione monetaria condotta dal Chairman della Fed, Paul Volcker. Lo spostamento dell’attenzione sul mercato ha preso avvio con una spinta fiscale molto forte; quando lo strumento della detassazione raggiunse i limiti di sua attivazione, la politica economica degli Stati Uniti ha poggiato sempre più sulla spinta monetaria, trovando nella Fed di Greenspan un’energica attuazione. Il mercato a sua volta, beneficiando dell’impostazione politica liberista e del benign neglect delle autorità di controllo, si è cimentata in breve tempo in due bolle speculative: quella dell’ITC, cioè dell’informatica e delle telecomunicazioni (o del dot.com), seguita da quella delle costruzioni (the housing bubble) che hanno spinto all’insù e poi sostenuto la crescita reale. Poiché la politica economica americana e la politica del cambio cinese consentivano saggi di sviluppo nelle due sponde del Pacifico più elevati di quelli che si sarebbero avuti senza stimoli fiscali e monetari, da un lato, e con cambi flessibili, dall’altro, il resto del mondo beneficiava di questi andamenti, mentre si andava infilando dentro una delle più gravi crisi dopo quella del 1929-33. Quando gli eccessi inflazionisti sulle attività reali e finanziarie cominciarono a trasmettersi sui prezzi dei beni e servizi la Fed, passata nelle mani di Bernanke, tentò di restringere l’offerta monetaria rivelando però il cul de sac in cui gli Stati Uniti si erano infilati e avevano infilato il mondo. Le famiglie americane cominciarono a non poter rimborsare i mutui ipotecari contratti a tassi fluttuanti artificialmente bassi e senza una seria verifica del merito di credito; i prezzi delle abitazioni crollarono abbassando il valore delle garanzie e le società finanziarie coinvolte entrarono in area di default. Risultò immediatamente chiaro che l’insolvenza dei crediti subprime andava infettando altri titoli che li avevano in pancia e la palla di neve divenne valanga. Concordo con Sinai che le autorità hanno percepito in ritardo la natura “sistemica” della crisi e con la scelta di lasciar fallire la Lehman Brothers, che resta una delle decisioni più incomprensibili dell’intera vicenda, la valanga si è abbattuta sulle borse azionarie che videro crollare un principio ereditato dalla storia più che dalla logica economica, quello del to big, to fail. L’abbattimento di questa barriera ha reso estremamente difficile convincere il mercato che le autorità avevano intenzione non solo di innalzare nuovamente questa barriera, ma di farlo anche a favore delle unità più piccole del mercato. L’Europa ha avuto il coraggio di affermare che non avrebbe permesso il fallimento di nessuna banca o finanziaria, stabilendo un metodo di intervento più che una dimensione, mentre gli Stati Uniti hanno fissato un limite finanziario agli interventi, rendendo meno efficaci le loro intenzioni in quanto, data l’incertezza, il mercato si è domandato se 700 miliardi di dollari sarebbero stati sufficienti. L’ampiezza e la diffusione territoriale e settoriale della crisi finanziaria si va ora trasmettendo all’economia reale, accrescendo le preoccupazioni del mercato, sommando problemi a problemi. L’irrazionalità della borsa azionaria si va trasformando in una valutazione razionale della caduta attesa dei profitti.

La mia opinione è che la crisi finanziaria si può tamponare con la rete di protezione finanziaria approntata, ma quella produttiva richiede un qualche intervento fiscale, non “a pioggia” ma mirato. Entrambi gli interventi, tuttavia, anche se intelligentemente e immediatamente attuati, non rimuoverebbero le cause prime della crisi da noi indicate. Se gli Stati Uniti non riequilibrano i loro conti con l’estero riducendo i dollari in varia forma che immettono nel circuito globale e se la Cina non passa ai cambi flessibili e sostituisce le esportazioni con domanda interna, i problemi si ripresenteranno sotto forma di una guerra commerciale o una crisi valutaria. Ancora meglio se il G-10 allargato a Cina, India e Brasile decidesse di adottare come standard monetario gli SDR “riformati” per poter bene operare. Se nulla venisse fatto, a farne le spese sarebbe l’UEME, l’Unione sia economica che monetaria dell’Europa a 27/15, che entrerebbe in crisi nonostante l’ondata di ottimismo delle sue grandi capacità di restistenza. Non vedo che guadagno possano trarre gli Stati Uniti e il resto del mondo da questo evento. Concordo con Sinai che è giunto il momento di sedersi intorno a un tavolo per ridisegnare le regole di governance globali sconvolte dal crollo del regime di Bretton Woods deciso unilateralmente e senza un’alternativa “politica”. La crisi, caro Sinai, viene da lontano!