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Candidati e politica estera: ambizioni e limiti di bilancio.

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A metà del primo mandato di Barack Obama, l’America sembrava sulla strada dell’isolazionismo.

Nei circoli della politica estera di Washington questa era una considerazione apparentemente incontrovertibile, e valida per tutte le sfumature ideologiche. Anche da parte repubblicana, la tensione verso un ruolo più dimesso e meno aggressivo degli Stati Uniti nel mondo appariva come un necessario cambio di direzione rispetto ai motivi ideali della guerra al terrore e a tutte le sue conseguenze. C’è stata poi l’ascesa del Tea Party: le sue tendenze centripete, le pressioni di parte libertaria per tagli profondi al budget che contagiavano il pensiero dei repubblicani mainstream, la necessità di praticare quello che con apposito riferimento militaresco è stato definito un “surge at home” (cioè un aumento delle forze a casa propria invece che in quelle altrui). Tutti questi elementi, dominanti nel dibattito fino a poco più di un anno fa, sembravano configurare uno scenario in cui l’aggressività in politica estera avrebbe perso in fretta la sua forza, e i conservatori si sarebbero spostati verso la politica estera “mista” di Obama: una versione potenziata dell’internazionalismo liberal con generosi ricorsi a incursioni delle forze speciali e bombardamenti aerei. Non è andata così.

Secondo una legge non scritta della politica americana, le posizioni estreme sono state accompagnate alla porta da un dibattito politico che tende a ritornare verso le correnti ideologiche più tradizionali. Nel controesodo dall’isolazionismo intransigente, il candidato repubblicano Ron Paul è l’eccezione immancabile, ma le sue prediche contro le “900 basi americane in 130 paesi del mondo” sono rivolte a fedeli assai poco interessati al fatto che le basi militari realmente significative siano in realtà una ventina distribuite in undici paesi stranieri. Paul occupa una posizione di nicchia, propugna una dottrina di ripiegamento “senza se e senza ma” che proprio per questo è praticamente impermeabile agli avvenimenti esterni.

Le posizioni degli altri candidati alla nomination repubblicana, Mitt Romney, Rick Santorum e Newt Gingrich, esprimono, con diverse sfumature, il ritorno a una politica estera muscolare dopo la stagione in cui il ridimensionamento del ruolo americano ha trovato sostenitori anche nel mondo conservatore. Il team di consiglieri di Romney è una propaggine dell’Amministrazione Bush: fra i ventidue adviser selezionati dall’ex governatore del Massachusetts c’è anche lo storico Robert Kagan, recente autore di “The World America Made”. Si tratta di un saggio che contrasta l’opinione, assai diffusa fra gli analisti di politica estera negli ultimi quindici anni, che la potenza americana sia in declino. “An American Century”, il libro bianco che sintetizza la visione internazionale di Romney, riprende fin dal titolo il “Project for the New American Century”, think tank fondato da un gruppo di intellettuali neoconservatori (fra i quali lo stesso Kagan) nel 1997 che proponeva di poggiare la politica estera americana su quattro pilastri fondamentali: l’aumento della spesa militare, il rafforzamento delle alleanze per contrastare i regimi ostili, la promozione della libertà economica e politica all’estero e l’estensione del ruolo dell’America nel mondo. Lo stesso aggressivo eccezionalismo si trova nelle proposte di Romney, il candidato che se fosse eletto dovrebbe tenere fede alle seguenti promesse elettorali: fermare il ritiro delle truppe dall’Afghanistan per ordinare una nuova review da parte dei generali sul campo; confrontare l’Iran in modo deciso, senza scartare nessuna opzione; rilanciare le alleanze con gli alleati europei più di quanto abbia fatto Obama nel suo primo mandato; e revocare immediatamente i tagli al budget del Pentagono presentate dal segretario Leon Panetta alcune settimane fa. Fonti del team di Romney fanno sapere che l’unica scelta strategica di Obama apprezzata anche dall’avversario è quella di ridisegnare la presenza militare americana nel Pacifico, in funzione del contenimento cinese. Particolarmente significative per spiegare l’approccio “hawkish” di Romney è la sintesi dell’ex ambasciatore americano presso l’Onu e membro di spicco dell’amministrazione di G.W.Bush, John Bolton, il quale dopo essere stato lusingato da Gingrich ha deciso di sostenere il suo rivale: “Non si può prendere Assad senza un’azione decisa nei confronti dell’Iran”. L’approccio sintetico al turbolento quadrante del Golfo Persico è il segno di una politica unilaterale che Romney ha architettato prima che i suoi avversari studiassero una linea coerente.

Solo negli ultimi mesi Gingrich e Santorum si sono spostati decisamente su posizioni più conservatrici, accogliendo i segnali degli strateghi delle campagne elettorali e reagendo agli stimoli provenienti dall’Amministrazione. Sul ritiro delle truppe dall’Afghanistan l’ex speaker della Camera Gingrich dice che “nessun generale approva la fretta con la quale stiamo ritirando i soldati”, ma fino all’estate scorsa sosteneva che occorresse portare a in patria i militari “il più velocemente possibile”. La metamorfosi aggressiva di Santorum, candidato che non si trova a suo agio a discettare di politica estera, si applica invece allo scenario iraniano. “Ho passato dieci anni, quando ero al Senato, a scrutare l’Iran come fossi un raggio laser” è una delle massime che ripete spesso per togliere l’impressione che lui, irriducibile cattolico ossessionato dai temi etici e sociali, sia un parvenu della politica estera. L’attacco frontale al regime iraniano e alle inani ricette di Obama per contrastarlo sono parti immancabili degli stump speech del Santorum più recente, così come le promesse di non basarsi sul budget né sulle mere dispute politiche per decidere quando e come portare le truppe fuori dall’Afghanistan. La crescita di Santorum nei sondaggi coincide proprio con la sua ritrovata aggressività in politica estera e il tema, apparentemente scivolato sotto le preoccupazioni economiche, è ora rivitalizzato dal dibattito su un possibile attacco agli obiettivi nucleari in Iran e sull’incandescente situazione siriana.

Le tendenze appena ricordate impongono una distinzione che sarà fondamentale da qui alle elezioni di novembre, e che pone un questito: quanto di questo ritorno alla politica estera è frutto di un dibattito strategico e ideale e quanto rientra nel normale gioco delle parti? Al momento, lo schema delle dichiarazioni dei candidati è chiaramente disegnato su quello di Obama: quando il presidente presenta i tagli al Pentagono i candidati presentano una visione opposta; quando esprime la speranza di una risoluzione diplomatica con l’Iran rimarcano la loro identità di vedute con il governo israeliano; quando parla di confronto con la Cina loro si mostrano insoddisfatti per l’inadeguatezza delle forze dispiegate nel Pacifico. La fluidità dell’assetto mediorientale non permette ai candidati di lanciarsi in politiche coerenti di ampio respiro, e per questo tutti si limitano a reiterare dichiarazioni di principio più o meno circostanziate. Il tema della spese militare, invece, è certamente destinato a durare, essendo parte integrante della issue che domina il dibattito. Qui si aprono le fratture fra candidati animati a parole da principi ideali contigui, ma che nei fatti dovranno cercare di attrarre elettori indipendenti, moderati, e orfani del Tea Party in cerca di disciplina fiscale che non si fidano di Ron Paul.

Come è noto, durante le primarie repubblicane la tendenza naturale è che la barra politica si sposti verso destra, ma alle elezioni generali il candidato che avrà la nomination sarà costretto a smussare gli angoli più rigidi del suo programma per diminuire gli attriti con l’elettorato più distante. A prescindere dai possibili smottamenti geopolitici da qui a novembre, il primo punto da affrontare sarà comunque il bilancio.