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Cancun: timidi progressi per il post-Kyoto

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La conferenza di Cancun sul rinnovo del protocollo di Kyoto, in scadenza nel 2012, ha fatto registrare timidi progressi nella lotta al cambiamento climatico, ma molto resta ancora da fare. Lo slancio ambientalista dell’UE, guidato dalle diplomazie di Parigi e Berlino, non ha inciso particolarmente anche a causa della sostanziale passività di Obama, dovuta ai problemi interni, ed al perenne rifiuto delle economie emergenti di adottare limiti alle emissioni per le proprie industrie. Rispetto a Copenaghen l’accordo di Cancun, ottenuto grazie al forcing finale della padrona di casa Patricia Espinosa (ministro degli Esteri messicano), definisce meglio le modalità di finanziamento per il cambiamento climatico, ma non include alcun obbligo vincolante per la riduzione delle emissioni, rinviando così tutto alla conferenza di Durban del 2011.

L’enorme impegno europeo si è scontrato, di fatto, con la crescita economica delle economie emergenti e le paure dei paesi in via di sviluppo, su tutti quelli africani. I BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) continuano infatti a rifiutare l’adozione di ogni sorta di obiettivo vincolante per la riduzione dei gas serra, affermando come le richieste occidentali non tengano in considerazione le emissioni pro capite (il quantitativo medio di gas serra che ogni persona emette) che sono attualmente di gran lunga superiori in Europa e Nord America. Se si analizzano i dati, effettivamente le emissioni che in media un abitante cinese emette sono il 15% rispetto a quelle di un cittadino americano, e circa un terzo di quelle di un italiano. Tale ragionamento, che vale, con qualche differenza, anche per gli abitanti di Brasile, India e Sud Africa (altra economia emergente), giustifica l’ostracismo di tali paesi nei negoziati internazionali. A questo si associa l’inconcludenza dei paesi in via di sviluppo, i quali da un lato sostengono l’UE nei negoziati (perché preoccupati dal continuo aumento nei livelli dei mari e dall’avanzare della desertificazione in ampie aree dell’Africa subsahariana), e dall’altro si limitano a generiche condanne verso Cina e India (per non perdere i loro investimenti diretti).

L’iniziale sostegno alla posizioni europee da parte di Obama –  considerato il partner giusto con cui siglare il nuovo accordo internazionale – è svanito a seguito delle mille difficoltà della sua amministrazione nell’attuare la tanto decantata “rivoluzione verde”, a maggior ragione dopo la sconfitta alle elezioni di midterm. I timori dell’opinione pubblica che i costi di una rivoluzione verde potessero ulteriormente abbattere le possibilità di ripresa economica, hanno contribuito al successo dei repubblicani. E la loro attuale leadership al Congresso rende assai improbabile che gli Stati Uniti non solo ratifichino l’eventuale rinnovo del protocollo di Kyoto, ma anche che adottino alcun piano per la riduzione delle emissioni. Questo, a sua volta, lascerà l’UE ancora  più isolata nei negoziati.

Una novità interessante emersa a Cancun è un nuovo gruppo di paesi (ALBA), guidato dalla Bolivia e composto per lo più da stati sud-americani (con la cruciale eccezione del Brasile). Se da un lato gli ALBA hanno sostenuto l’UE sulla necessità di adottare obiettivi di riduzione per i gas serra, dall’altro hanno fortemente attaccato i paesi occidentali (UE inclusa) circa lo scarso finanziamento delle misure per il cambiamento climatico e il trasferimento della tecnologia, bloccando in diverse fasi i negoziati. Tuttavia la loro ferma strategia negoziale ha portato alla creazione di due strumenti: un “Fast-start fund” che sosterrà i paesi in via di sviluppo con 30 miliardi di dollari all’anno fino al 2012, con l’intenzione di estenderlo fino al 2020 aumentandone il budget a 100 miliardi all’anno; e un “Green climate fund” dotato di 100 miliardi di dollari l’anno per lo sviluppo su scala mondiale dell’economia verde. Quest’ultimo sarà gestito dalla Banca Mondiale, di concerto con altri 40 paesi che hanno partecipato alla conferenza. Risponde, di fatto, all’invito fatto da alcuni analisti di sviluppare dei climate bonds da parte della Banca Mondiale per allocare più fondi a sostegno delle tecnologie a basso carbonio.

Quanto al quadro pià generale, le pressioni europee e del gruppo ALBA non sono state sufficienti a far adottare vincoli per la riduzione delle emissioni di CO2. La presidentessa Espinosa ha optato infine per far approvare il testo finale per consensus, cioè senza l’unanimità Il testo afferma così genericamente che i paesi cercheranno di ridurre le proprie emissioni del 25%-40% entro il 2020 rispetto ai valori del 1990, senza però prevedere alcun obbligo e tanto meno meccanismi sanzionatori e rimandando le discussioni su tale punto alla conferenza del dicembre 2011 in Sud Africa.

Questo conferma i timori di molte industrie europee che l’UE sia l’unico attore globale ad avere adottato dei piani vincolanti per la riduzione delle emissioni, obbligando quindi le proprie economie a costose ristrutturazioni che ne stanno limitando la competitività nel breve periodo. È probabile che la proposta di alcuni leader europei, guidati da Sarkozy e Berlusconi, di considerare l’introduzione della “carbon tariff” (cioè un dazio su tutti i beni provenienti da paesi che non abbiano adottato politiche volte a ridurre le emissioni di gas serra) sia ripresa in esame nel corso del 2011.

Tale misura era stata peraltro già proposta dal segretario all’Energia americano Steven Chu nell’autunno 2009 per cercare (inutilmente) di vincere le resistenze del Congresso all’approvazione del Waxman-Markey bill (un piano per la riduzione delle emissioni negli Stati Uniti)  Immaginando ad esempio un’aliquota fissa del 10% sui prodotti cinesi importati, il governo americano riceverebbe più di 20 miliardi di dollari all’anno per sostenere la propria industria a adottare tecnologie meno inquinanti. Tale tariffa è tuttavia fortemente criticata dalle economie emergenti poiché considerata una misura altamente discriminatoria verso la loro crescita economica. Pechino ha più volte espresso la volontà di rispondere all’eventuale adozione della “carbon tariff” imponendo una tassa sulle esportazioni verso tutti i paesi che la adotteranno. Sebbene tale minaccia sia ritenuta da molti osservatori solo uno strumento negoziale, rimane la reale preoccupazione che una guerra commerciale finirebbe per “importare inflazione” nella UE e negli Stati Uniti.

Sullo sfondo di queste incertezze, a Cancun si sono registrati progressi importanti su almeno altri due punti. Il primo è la lotta alla deforestazione e le misure a favore della riforestazione. Mentre i principali attori si scontravano sugli obiettivi per la riduzione delle emissioni, la diplomazia brasiliana è stata infatti in grado di creare un vasto consenso sui finanziamenti per questi obiettivi.

Secondo punto sul quale si sono registrati passi in avanti, seppure minori, è il trasferimento di tecnologia ai paesi meno sviluppati. Si è infatti concordata la creazione del “Technology Executive Committee” e del “Climate Technology Centre and Network” per favorire il trasferimento del know-how. È tuttavia chiaro che a fronte di tale mossa da parte dei paesi maggiormente sviluppati, le economie emergenti dovranno iniziare ad adottare piani concreti per ridurre le emissioni.

Alla luce di queste considerazioni, appare chiaro che i negoziati per il post-Kyoto dovranno intensificarsi nel 2011 se si vorrà raggiungere entro fine anno un nuovo accordo che introduca obblighi di riduzione per tutti i paesi. Qualche passo avanti c’è stato, ma i maggiori problemi restano sul tavolo.