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Brutto clima a Copenaghen

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Il barometro segna cattivo tempo, a Copenaghen. Al vertice delle Nazioni Unite sul clima, che si svolgerà a dicembre, le aspettative sono ormai ridotte al lumicino. Se fino a pochi mesi fa tutti credevano che dal meeting danese sarebbe uscito “Kyoto 2”, o almeno un significativo passo avanti verso la definizione di un accordo globale post-2012, adesso l’agenda sta rapidamente evolvendo. Lo hanno testimoniato una serie di piccoli incidenti l’estate scorsa, culminati nelle dichiarazioni di molti protagonisti dell’evento che hanno abbassato l’asticella. Ma lo dimostrano, soprattutto, i grandi, piccoli aggiustamenti di programma.

L’ultima notizia dal fronte americano riguarda la decisione di Barack Obama, che avrebbe deciso di disertare. Ufficialmente, perché non si tratta di un incontro tra capi di Stato. In pratica, molti ritengono che il presidente americano non sia disposto ad attraversare l’oceano per presentarsi a mani vuote: il piano climatico dell’amministrazione si è arenato al Congresso. Chi tiene il polso dell’attività parlamentare americana dice che, se non passerà entro dicembre, slitterà probabilmente a non prima del 2011 (nel 2010 ci sono le elezioni di mid term, e i democratici non vorrebbero presentarsi alle urne col ricordo ancora fresco di quello che i repubblicani definiscono “the greatest tax increase in American history”). Pare che il presidente sia intenzionato a dedicare al clima il suo discorso di accettazione del Nobel per la Pace, proprio durante Copenaghen. Non proprio lo stesso effetto, ma un modo per salvare le apparenze.

Se Obama delude i fautori del taglio delle emissioni, le cose in Europa non vanno meglio. A fine ottobre, si è assistito al paradossale duetto tra ministri delle Finanze e responsabili dell’Ambiente dell’Unione. Gli uni non sono stati in grado di trovare un accordo sui fondi da destinare alla lotta al cambiamento climatico; gli altri hanno sparato un irrealistico target di riduzione delle emissioni dell’80-95% entro il 2050. Segno di una tensione crescente tra le anime belle e chi, invece, ha ben presente la situazione dei conti pubblici ed è consapevole che un’accelerazione eccessiva potrebbe danneggiare le prospettive di ripresa economica. Perché il grande assente a Copenaghen sarà proprio la crisi. Ufficialmente se ne parlerà, e non mancherà chi si sbraccerà per argomentare che i “green jobs” sono centinaia di migliaia, anzi milioni, o che gli investimenti verdi possono essere strumento di rilancio. Tutto ciò, però, non potrà cancellare quel che chiunque si occupi di hard economics sa, e cioè che la ristrutturazione dei nostri sistemi industriali ed energetici può forse avere molti pregi, ma tra questi difficilmente vi è un effetto pro-growth. Più probabilmente, il contrario: ed è questo che, rispetto a un paio di anni fa, rende meno attraenti le politiche climatiche e ne fa precipitare il livello di priorità molto più in basso.

Da ultimo, ma non meno importante, l’eterno problema di India e Cina, i paesi che con le loro emissioni e col loro tasso di crescita stanno completamente ridisegnando lo scenario, anche climatico. A dispetto di alcune apparenti concessioni, in tutte le loro dichiarazioni ufficiali così come nei documenti interni, Pechino e Nuova Delhi hanno chiarito che, nella loro prospettiva, la lotta al riscaldamento globale è una faccenda occidentale. Nella misura in cui esso è antropogenico, sono gli occidentali ad averlo causato e spetta a loro risolverlo: se questi vogliono un coinvolgimento delle economie emergenti, mettano mano al portafoglio e paghino. Giusto per dare una spruzzata negoziale all’ultimatum, i due giganti emergenti hanno affermato di essere disposti a fare la loro parte solo se il mondo industrializzato accetterà per sé target vincolanti di riduzione delle emissioni del 25-40% entro il 2020: l’estremo inferiore è possibile ma improbabile per l’Ue, di fatto inaccettabile per gli Usa. Quello superiore è poi del tutto scolastico.

Mettendo assieme i pezzi del puzzle, al momento l’esito più probabile per il meeting è un nulla di fatto. Si respirerà quasi certamente un’aria più collaborativa a Copenaghen rispetto alle precedenti edizioni, frutto principalmente della staffetta alla Casa Bianca. La dichiarazione conclusiva sarà forse più ambiziosa. Ma sotto il fumo, resterà la stessa (scarsa) quantità di arrosto, e difficilmente le decisioni andranno oltre l’impegno a chiudere, entro un anno, le trattative. Un traguardo che, con sospetta coerenza, viene riproposto da almeno un lustro.