Armi di distruzione di massa e deterrenza: non solo una soglia nucleare
Ha fatto molto scalpore una dichiarazione di Joe Biden del 6 ottobre – quasi certamente fuori programma e poi parzialmente corretta dai collaboratori del Presidente – sullo scenario di un “Armageddon nucleare”, con un esplicito parallelo con la crisi cubana del 1962. La scelta dei toni e delle parole è stata opinabile, ma è interessante il modo in cui Biden ha inquadrato questa specifica fase delicatissima del conflitto russo-ucraino: il Presidente ha definito la situazione attuale, correttamente, come il risultato delle palesi inefficienze delle forze convenzionali russe sul terreno in Ucraina – un dato che resterà a prescindere dall’esito del confronto in atto.
In altre parole, l’equilibrio di forze in un territorio contiguo alla Federazione Russa è stato ormai alterato, e neppure brandire l’arma nucleare servirà a tenere sotto controllo il famigerato “vicino estero” di Mosca. Se infatti la soglia nucleare venisse varcata, le forze armate russe sarebbero praticamente annientate (dagli strumenti convenzionali americani); se invece la minaccia si rivelasse un bluff (come tutti speriamo), allora la potenza militare russa finirebbe per essere degradata sia nei fatti (livello convenzionale e “ibrido” in stile Wagner Group) sia nella percezione (escalation nucleare, a quel punto priva di vera utilità strategica).
Per meglio comprendere le opzioni e i rischi, conviene fare un passo indietro e ricorrere a un quadro teorico che è stato sviluppato e discusso a fondo per quasi ottant’anni.
La teoria della deterrenza è un settore piuttosto arcano, e quello più specifico della deterrenza nucleare ha tratti davvero paradossali; la logica interna della dissuasione reciproca va dunque trattata con molta cura. Il primo punto da sottolineare però è proprio che siamo di fronte a un meccanismo “a due vie”, a due sensi di marcia, cioè letteralmente “reciproco”. Questo è invece un aspetto che talvolta non è ben compreso, come quando si argomenta frettolosamente che di fronte a un esplicito ricatto nucleare si dovrebbe inesorabilmente cedere; al contrario, se si arriva al ricatto esplicito è certamente il caso di preoccuparsi, ma in quel momento sta solo iniziando la fase più acuta di un rapporto di mutua deterrenza.
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Questo meccanismo, in cui si cerca di far valere una specifica capacità militare senza usarla, ha una fortissima componente psicologica, non facile da integrare in un’analisi “oggettiva” (cioè in una visione semplicistica del realismo politico che a volte vien spacciata per Realpolitik) e quantificabile. Il concetto di “credibilità” è assolutamente centrale: la credibilità si conquista, nel tempo, con la coerenza tra promesse e azione, tra “linee rosse” e volontà politica di accettare rischi e costi per farle rispettare. Come si vede già da questi primi cenni, utilizzare il rischio come vero strumento di potere è coessenziale alla deterrenza; non si può fare a meno del rischio e di un certo elemento di azzardo, perché se si rinuncia a un tasso di incertezza si deve semplicemente restare fuori dal gioco – ci si deve arrendere all’avversario prima possibile.
Il dilemma della credibilità è complicato anche dalla circostanza che far valere la propria capacità di deterrenza in una data situazione – come oggi nei confronti della Russia – influisce poi sulla capacità futura di dissuadere il medesimo avversario in un diverso contesto, o perfino altri avversari. Una crisi come quella in corso in Ucraina proietta la sua ombra sulle crisi che verranno e su scenari geograficamente lontani (non è certo un caso se la Corea del Nord ha condotto un test missilistico nei primi giorni di ottobre sui cieli sopra il Giappone).
Questo punto centrale ha una grandissima rilevanza soprattutto nei confronti della Cina, ed è stato colto in pieno, ad esempio, nel libro scritto dal principale autore della “National Defense Strategy” americana del 2018, Elbridge Colby, in cui precisa che gli USA devono prepararsi attivamente a vincere una guerra contro la Cina che non potranno permettersi di perdere, proprio per segnalare senza alcun dubbio a Pechino che una guerra del genere non deve essere scatenata; è la quintessenza della dissuasione (“The Strategy of Denial: American Defense in an Age of Great Power Conflict”, Yale University Press, 2021).
E’ stato commesso un serio errore di prospettiva rispetto alla Russia, che influenza oggi il dibattito sulla minaccia nucleare: il Paese è stato a lungo descritto come una grande potenza non convenzionale, ma guardando per così dire verso il basso (operazioni “ibride” etc.) piuttosto che verso l’alto (capacità nucleari) lungo lo spettro della forza militare.
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In realtà, proprio le carenze nell’uso della forza in chiave ibrida hanno spinto Putin a ricorrere all’escalation. Mosca sta cercando di compensare la sua ormai scarsissima credibilità come potenza militare convenzionale mediante il “rilancio” delle sue capacità nucleari – dunque, la sua scelta rischiosissima deriva da un fallimento, non da un successo. Di contro, gli Stati Uniti hanno – per molti, sorprendentemente – dimostrato di poter influire su un conflitto (convenzionale) in corso anche soltanto attraverso aiuti militari e di intelligence, sanzioni economiche e strumenti diplomatici. La deterrenza è un gioco complesso, a più livelli, e il versante nucleare ne è soltanto un elemento. Nel caso specifico, mentre Putin spera di vincere la partita grazie alla minaccia nucleare che sta già utilizzando, l’Occidente dispone di una nettissima superiorità convenzionale (per ragioni tecnologiche, economiche, dottrinali e di coesione politica tra leadership e cittadini) che ancora non ha deciso di utilizzare. Questa superiorità esiste comunque, è perfettamente nota al Cremlino ed è dunque collocata appena oltre l’orizzonte del conflitto in corso in Ucraina. In breve, non si deve pensare che la deterrenza funzioni soltanto se è perfettamente simmetrica; al contrario, può esservi deterrenza reciproca anche in forme asimmetriche – motivo per cui Washington non ha affatto bisogno di minacciare il ricorso alle proprie armi nucleari tattiche per bilanciare le minacce russe.
Ha contribuito a una notevole confusione concettuale, negli ultimi due decenni circa (cioè gli anni di Putin), proprio questa insistenza sulle forme “ibride” di impiego della forza, o più precisamente sul livello “liminale” come lo ha definito David Kilkullen (“The Dragons and the Snakes. How the Rest learned to fight the West”). La caratteristica saliente di questa modalità di uso della forza militare è che non farebbe scattare una reazione (in altre parole, non innescherebbe il meccanismo dell’escalation deliberata a scopo di “denial” e/o deterrenza) perché si manterrebbe deliberatamente sotto una soglia della minaccia chiara e diretta a interessi occidentali.
Per chiarezza, va detto che le tesi di Kilkullen, che è stato un consigliere ascoltato a Washington, sono state influenzate soprattutto dall’esperienza americana in Iraq e Afghanistan, e dunque cercano risposte alle sfide della guerriglia e dell’insurrezione armata più che a quelle di un avversario come la Russia. Lo stesso autore si riferisce però espressamente anche alle forze russe, sostenendo in particolare che queste si sarebbero riprese quasi totalmente dalla “eclissi” storica imposta dalla fine dell’URSS, adattandosi a modalità operative sofisticate e soprattutto approfittando delle debolezze occidentali. E’ qui che l’analisi di Kilkullen – come di molti altri – sembra essersi spinta troppo oltre o nella direzione sbagliata, omettendo di notare ad esempio chi fossero gli avversari contro i quali le forze russe si sono imposte (certo non forze ben addestrate ed equipaggiate) e immaginando che Mosca fosse in grado di sorprendere l’Occidente con attacchi a sorpresa dopo una fase di conflitto a bassa intensità. Abbiamo visto in Ucraina che la sorpresa c’è stata, ma non ha causato un collasso dell’avversario né tantomeno una rinuncia totale degli USA, della NATO e di altri Paesi a far valere le proprie ragioni – e quelle del diritto internazionale.
E’ stato allora utile interpretare il pensiero russo (e forse cinese) sull’uso della forza adattato al XXI secolo, ma non ne deriva affatto che gli scenari immaginati a Mosca e Pechino si debbano realizzare.
Forse questo è stato davvero un grande abbaglio, se si pensa che la guerriglia è antica come la guerra, le scorrerie o la pirateria lo sono altrettanto, e i soldati di ventura non sono stati certo inventati da Putin. Dato ancor più rilevante, si è sottovalutato che l’impiego di truppe scelte, contingenti non regolari e più spesso veri e propri gruppi di mercenari, non intaccava le capacità convenzionali dei Paesi occidentali e dunque il meccanismo di fondo della deterrenza ai livelli più alti della possibile escalation.
Peraltro, molti hanno dimenticato – colpevolmente – che la “guerra ibrida” dei russi in Siria, ad esempio, è consistita spesso nel bombardamento indiscriminato di obiettivi civili, ad anticipare quanto è poi accaduto su scala più ampia in Ucraina. L’elemento “liminale” non stava allora nella tattica (para)militare adottata dai russi, ma semmai nella percezione occidentale dei propri interessi in gioco, che erano tali da creare un certo grado di coinvolgimento ma non abbastanza intensi e diretti da provocare un intervento massiccio in grado di sovrastare (o dissuadere) la forza impiegata dalla Russia. In sostanza, gli USA, la NATO e gli altri partner più affidabili di Washington hanno in quei casi scelto di non far valere la propria superiorità convenzionale (che è anche tecnologica ed economica) – e ciò ha consentito alla Russia di occupare uno spazio di manovra in teatri come quello siriano o libico.
Del tutto diverso il caso dell’Ucraina, in cui, a seguito dell’invasione russa, la reazione da parte di una vasta coalizione a sostegno di Kiev ha di fatto innescato una spirale di escalation, che finora l’Occidente ha cercato di controllare e gestire ma che certo presenta rischi concreti. Assieme ai rischi ci sono però i rapporti di forza, e qui dobbiamo uscire da un equivoco: la leadership russa sarà anche disperata e dunque doppiamente pericolosa, ma le sue opzioni continuano a ridursi e quella nucleare tattica, in particolare, è praticamente un’opzione suicida. L’effetto quasi garantito di un attacco nucleare sarebbe infatti, come minimo, il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti e la distruzione delle forze armate russe nel Mar Nero.
Gli stessi nuovi bombardamenti intensi contro varie città ucraine, seguiti all’attacco (probabilmente ucraino) al ponte di Kerch dell’8 ottobre, non hanno un vero obiettivo militare, essendo azioni punitive finalizzate a terrorizzare i civili. Radere al suolo un condominio o colpire una scuola (non come danno collaterale, ma come effetto deliberato delle bombe) è già di per sé un attacco di distruzione di massa.
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Si conferma dunque, una volta di più, che la forza convenzionale russa non basta a soggiogare l’Ucraina, ma intanto si delinea uno scenario forse inaspettato: la situazione attuale non cambierebbe radicalmente (soprattutto per i civili ucraini) perfino dopo un eventuale attacco nucleare tattico: oltre al terrore, quale altro obiettivo sarebbe raggiunto sul terreno?
In estrema sintesi, dal punto di vista russo superare la soglia nucleare non avrebbe alcun effetto positivo rispetto al confronto con la forza militare e la volontà politica ucraina che è attualmente in corso. Dunque, non sarebbe certo una scelta risolutiva come forse spera ancora Putin, ma potrebbe essere l’ultima scelta sbagliata e autolesionista della sua carriera politica.