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Anarco-Islam: l’integrazione antagonista nelle università americane

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Fin dagli anni Settanta, negli Stati Uniti, ogni qualvolta gli studenti dei college protestano e occupano gli edifici universitari, le forze dell’ordine o i dirigenti delle strutture accademiche parlano di «infiltrati» o «agitatori esterni». Era sbagliato allora ed è sbagliato adesso. Non che non ci siano agenti provocatori, che si intrufolano nei movimenti giovanili di protesta e cercano di indirizzarli o condizionarli. Ma la loro azione può avere una qualche speranza di successo solo a condizione che ci sia già una base di dissenso genuino tra gli studenti. Gli agenti provocatori e gli agitatori esterni possono tentare di sfruttare e amplificare le tensioni esistenti, ma non possono creare dal nulla un movimento di protesta.

Una manifestazione pro-Palestina a Sacramento, in California

 

Una porzione delle risorse impiegate per individuare gli agitatori esterni potrebbe, forse, essere proficuamente investita nell’analisi della base ideologica e del significato politico delle proteste. A tale riguardo, rispetto agli anni Settanta, va registrata una significativa differenza.

Quelle proteste erano “interne” all’orizzonte culturale dell’Occidente, anche quando sfociavano in posizioni filocomuniste. Esse si svolgevano in nome dei valori posti alla base del costituzionalismo occidentale, quali la libera manifestazione del pensiero, il garantismo giudiziario, il pluralismo culturale e così via. Oggi assistiamo, invece, a una crescente influenza di movimenti filopalestinesi, i quali hanno sempre più assunto, a loro volta, una connotazione islamico-popolare, ovvero, orientata verso gli ideali della Fratellanza Musulmana. Fondata nel 1928 da un insegnante egiziano, al-Ḥasan al-Bannāʾ, la Fratellanza è, fin dalle origini, caratterizzata dall’”islamizzazione dal basso”. Il suo profondo radicamento sociale le ha permesso di resistere alle campagne repressive dei governi. Nata in reazione all’”occidentalizzazione” e alla “de-islamizzazione” della società, la Fratellanza ha molte anime, tra loro distinte e solidali, da quella riformista e tecnocratica a quella fondamentalista ed eversiva.

 

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L’impegno a favore del popolo palestinese è storicamente qualcosa di ben distinto dall’Islam radicale. Esso, negli anni Settanta e Ottanta, negli ambienti accademici, era inquadrato nell’ambito delle lotte per il diritto dell’autodeterminazione dei popoli. Col tempo, in particolare a partire dalla fine degli anni Ottanta, sulla questione israelo-palestinese è diventato sempre più importante il ruolo di Hamas, espressione degli ambienti più radicali della Fratellanza Musulmana. Dopo anni di esercizio del “contropotere”, sul piano sociale prima ancora che politico, Hamas ha vinto le elezioni legislative in Palestina nel 2006, mettendo completamente fuori gioco l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. La strategia dell’OLP era orientata su obiettivi politici tradizionali, quale la nascita di uno Stato palestinese, da perseguirsi sia per via diplomatica sia attraverso la lotta armata e attacchi terroristici mirati. Con Hamas prevale, invece, una visione ben più radicale e dalle forti connotazioni religiose. L’obiettivo è la distruzione dello Stato ebraico e l’integrale reislamizzazione dell’area, da perseguirsi con tutti i mezzi, compresi gli attacchi suicidi condotti verso obiettivi sia militari sia civili.

Ne è un chiaro esempio il mutamento di significato dello slogan «dal fiume al mare», con cui si fa riferimento alla terra compresa tra il fiume Giordano e il Mediterraneo (vale a dire all’area in cui si colloca anche lo Stato di Israele). Lo slogan precede la nascita di Hamas di oltre vent’anni. Come spiega sul New York Times il professor Dox Waxman, docente di studi israeliani all’Università della California, «il motivo per cui questo termine è così fortemente dibattuto è perché significa cose diverse per persone diverse» e «le interpretazioni contrastanti sono in un certo senso cresciute nel tempo». Originariamente designava il desiderio dei palestinesi di tornare nelle loro città e nei loro villaggi, insieme all’ambizione ad avere uno Stato palestinese indipendente, comprensivo della Cisgiordania, confinante con il Giordano e la Striscia di Gaza.

Lo slogan ha poi assunto un significato sempre più polemico, in chiave interna al movimento palestinese, a partire dal settembre del 1993, dopo gli Accordi di Oslo del 1993, che sancirono il mutuo riconoscimento tra Israele e l’OLP. Gli accordi suscitarono dure reazioni nelle cosiddette “organizzazioni del rifiuto”, come Ḥamās, il Movimento per il Jihad Islamico in Palestina e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Questi movimenti, con una forte base popolare, continuarono a contestare l’OLP, portando a una crisi di rappresentatività di questa formazione politica rispetto al popolo palestinese. Dal fiume al mare», da allora in poi, significa non solo che Israele deve cessare di esistere, ma che gli ebrei devono essere scacciati dalla Palestina, che è considerata parte fondamentale della Umma (con tale termine, che letteralmente significa “comunità” o “nazione”, si intende in generale la “comunità islamica”, che è una realtà universale, non contenibile entro confini nazionali di tipo occidentale) e, al limite, anche attaccati, ovunque si trovano, perché responsabili, insieme alle potenze occidentali, dei mali del mondo, a cominciare dallo sfruttamento delle popolazioni delle ex-colonie dell’Occidente per finire con il degrado sociale delle grandi aree urbane. Questa reinterpretazione post-moderna di alcuni stereotipi antisemiti del Novecento, che hanno contribuito alla Shoah, si avvale della crescita esponenziale delle tecniche comunicative. Essa si diffonde nell’ambito scolastico e universitario, dove spesso viene accettata in modo inconsapevole e acritico, diventando un punto di incontro tra estremismi di varia natura politica e religiosa.

Tutto ciò ha avuto dei riflessi significativi sul movimento propalestinese a livello globale e, nello specifico, negli Stati Uniti. Chiari esempi di ciò sono gruppi come il National Students for Justice in Palestine o American Muslims for Palestine. Secondo uno studio dell’Institute for the Study of Global Antisemitism and Policy (ISGAP, isgap.org, “NSJP Report: The Contextualization of the National Students for Justice in Palestine”, 2019), tali organizzazioni fanno “eco” ad Hamas, soprattutto sul fronte dell’antisemitismo. Con il termine “antisemitismo” ci riferiamo qui a un’ideologia basata sulla convinzione che l’ebraismo, come cultura, e gli ebrei, come popolo, siano responsabili dei mali dell’umanità, fin dalla notte dei tempi (dalla diffusione dell’usura allo sfruttamento coloniale, dalle guerre alle epidemie e così via. Per quel che riguarda l’American Muslims for Palestine, sempre stando all’Anti-Defamation League, in un report del 2014 si legge che «l’AMP affonda le sue radici organizzative nell’Associazione islamica della Palestina (IAP), un gruppo antisemita che è stato il principale braccio di propaganda di Hamas negli Stati Uniti fino al suo scioglimento nel 2004».

Ha prevalso, col tempo, in questi gruppi, una lettura della questione palestinese di tipo “apocalittico”, nel senso letterale dell’espressione: essa viene letta, cioè, come la rivelazione di uno scontro epocale con l’Occidente (e Israele) colonialista, razzista, capitalista e imperialista. Si potrebbe parlare di una sorta di estremizzazione della causa palestinese in una chiave “teologico-politica”, peraltro, secondo gli ideali fondativi del Movimento per la Jihad Islamica in Palestina, nato anch’esso nell’ambito della Fratellanza musulmana, negli anni Ottanta e parte fondamentale del “fronte del rifiuto”.

La causa palestinese, in questa sua estremizzazione, ha esercitato una forza magnetica nei confronti del vasto e frammentato mondo dell’antagonismo sociale giovanile americano, che ha conosciuto la sua ultima esperienza di rilievo quasi un quarto di secolo fa, con il movimento No global. Le modalità organizzative e di azione delle attuali proteste nei campus richiamano, in effetti, le tecniche delle componenti estreme di quel movimento, attivo tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila (ad esempio la pratica del “Black-bloc”, teorizzata in “Anarchism in Action”, un manuale teorico-pratico on line da oltre un paio di decenni).

Il fenomeno è già noto a chi si è occupato delle periferie francesi, britanniche e anche italiane, ma oggi si sta sviluppando in maniera esponenziale nel mondo universitario, a cominciare dai college americani. A tale proposito, abbiamo sottoposto alla comunità scientifica la tesi dell’“integrazione antagonista”[1], poi riproposta nel corso dei lavori della Commissione sul radicalismo islamico, istituita dal governo Gentiloni. Per certi versi, secondo tale tesi, l’Islam politico si integra nelle società occidentali, andando a occupare gli spazi che in queste vengono istituzionalmente garantiti alle minoranze politiche e culturali nonché ai gruppi più radicali di opposizione sociale. Per certi versi, si assiste a una rielaborazione, su scala globale, del paradigma della «islamizzazione dal basso», sviluppatosi nell’ambito della Fratellanza Musulmana egiziana, in particolare a partire dai conflitti con lo statalismo arabo-nazionalistico di Nasser negli anni Sessanta.

L’«integrazione antagonista» si sta presentando sotto forma di progressiva osmosi tra anarco-insurrezionalismo e islamismo militante: individui e gruppi transitano tra ideologie apparentemente distinte, se non opposte, mantenendo quale costante la contestazione antioccidentale globale. Stiamo parlando, naturalmente, di gruppi minoritari, che tuttavia esercitano un ruolo riconosciuto di leadership ideologica e organizzativa.

Può essere interessante soffermarsi, a tale riguardo, sulle forti assonanze ideologiche tra alcune espressioni estreme, vicine all’anarchismo, del fenomeno woke e l’attuale insorgenza universitaria filopalestinese. “Woke” (letteralmente “sveglio”) è riferito alla consapevolezza delle ingiustizie sociali e razziali e rappresenta un richiamo alla vigilanza e all’allerta. Il termine ha acquisito notorietà universale nel 2017, con il movimento attivista statunitense Black Lives Matter. Nelle sue espressioni più radicali, esso è riferito all’”allerta” contro la rimozione del passato (coloniale e razzista dell’Occidente).

L’”allerta” si spinge fino alla richiesta di “cancellare” negli spazi pubblici ogni segno diretto o indiretto di “approvazione”, diretta o indiretta, nei confronti del suddetto passato (ad esempio, dopo le proteste del movimento Black Lives Matter e degli attivisti britannici per le minoranze, è stato tolto da una Torre dell’Università di Edimburgo, il nome del filosofo David Hume, perché ritenuto “razzista”). Ad accomunare l’estremismo woke e l’insorgenza universitaria pro-palestinese e filo-islamica c’è, in particolare, il rifiuto condiviso della “storicizzazione” del passato. Entrambe le prospettive adottano un approccio antistoricistico, considerando il passato non come un insieme di eventi conclusi, bensì come un continuum che permea l’esperienza presente. Questo si traduce in una costante riflessione sulle ingiustizie storiche che continuano a influenzare il presente, come il colonialismo in Africa, l’”occupazione” europea delle Americhe a partire da Colombo, fino alle responsabilità del capitalismo occidentale per il degrado ambientale del pianeta.

Una delle caratteristiche teoriche dell’Islam radicale è, infatti, l’interpretazione in chiave estremistica della tradizionale universalità spazio-temporale della Umma. In forza di tale interpretazione, si rifiuta ogni confine, di carattere sia geografico sia storico, alle istanze di riscatto della «migliore comunità mai suscitata tra gli uomini» (Corano 3, 110). In entrambe le prospettive, quella islamista e quella woke radicale, c’è una visione della continuità dei nemici e l’identificazione, nel passato, dei gruppi o delle strutture di potere considerati oppressori anche nel presente. Questa visione antistoricistica si traduce anche, a un livello scientifico più elevato, in una critica dei “paradigmi dominanti”, adoperati – questa l’accusa lanciata al mondo accademico – per neutralizzare la forza rivoluzionaria della memoria storica e conservare lo status quo. Si prospetta, per questo, la costruzione di un «anarchismo islamico de-coloniale», non autoritario e non capitalista, che sfida filosoficamente e teologicamente la modernità borghese e l’occidentalizzazione del pianeta. Così si esprime il sociologo Mohamed Abdou, dell’Università americana del Cairo, nominato visiting professor alla Columbia, poi licenziato per le sue dichiarazioni pro-Hamas.

Abdou, nel suo recente Islam and Anarchism,[2] come altri pensatori islamici contemporanei, rielabora la dottrina politica islamica in una chiave rivoluzionaria e antagonista, criticando aspramente pensatori islamici riformatori, come Sir Muhammad Iqbal, o “modernisti”, come Fazlur Rahman, perché considerati in ogni caso “interni” alla visione europea dello spazio politico, fondata sull’idea dello Stato-nazione. Egli ripropone, invece, un approccio islamico-universalistico e transnazionale, trovando in ciò una concordanza con il pensiero anarchico, e associando a questa visione pensatori fondamentalisti, come Sayyid Qutb, e gruppi e organizzazioni radicali come Hamas, Hezbollah, al-Qaeda e ISIS.

 

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Probabilmente siamo anche di fronte a una propaggine della “alternativa islamica”, sempre teorizzata nell’ambito della Fratellanza Musulmana, come risposta alla presunta “crisi dell’Occidente”. In questo caso, non si tratta solo di costruire network politico-sociali ed economico-internazionali, dialogando e interagendo con l’Occidente, alimentando contestualmente le esperienze antagoniste sia in Medio Oriente sia nel resto del mondo. La prospettiva “anarco-islamica”, se così si può dire, è quella dell’alimentazione di un clima permanente di conflittualità culturale e sociale, soprattutto nella dimensione urbana. Certo, si tratta di una prospettiva non priva di incongruenze e contraddizioni: si pensi al problema della compatibilità tra il dettato coranico e le istanze, che nella prospettiva anarco-islamica trovano un riconoscimento di legittimità, del movimento LGBT+.

Ma le contraddizioni e le incongruenze possono essere un elemento di forza e non di debolezza delle ideologie insurrezionali e antidemocratiche. Basti pensare alla fase “anarchica” e “libertaria” del fascismo, che non fu mai rinnegata da Mussolini, ma anzi, in qualche modo, sempre rivendicata e, alla fine, in parte lugubremente resuscitata. Quel che dovrebbe preoccupare, in questa ideologia, è la sua diffusione, anche grazie alla tecnologia, e alla sua capacità di far leva sul paradigma garantista che governa lo spazio pubblico occidentale: in forza di ciò, quando è difficile distinguere una legittima posizione scientifica da una strumentalizzazione ideologico-politica, nel dubbio, si finisce spesso per concedere spazio e legittimità anche a teorie e pratiche eversive. E’ un’ideologia che oggi riempie un vuoto, nel senso che tende a occupare nelle società occidentali gli spazi tradizionalmente occupati dalla sinistra sociale e dai movimenti giovanili. Lo Stato Islamico aveva ben capito questo fenomeno e cercò, in qualche modo, di cavalcarlo, pubblicando diversi articoli, di cui alcuni in italiano, nei quali si propone come modello di lotta al (post) colonialismo, di eguaglianza e giustizia sociale (si veda ad esempio qui) Ma la sua prospettiva ideologica era troppo ristretta e rigida per una tale operazione, che richiede invece una notevole apertura mentale e grande elasticità sotto il profilo etico-religioso.

L’emergere della “integrazione antagonista” nelle università rappresenta una sfida significativa per le istituzioni accademiche. L’eccessiva tolleranza da parte delle autorità accademiche viene di norma interpretata come debolezza, come il segno della consapevolezza di avere, in quanto esponenti delle classi colte dell’Occidente, colpe storiche da scontare, a partire dal colonialismo per finire al degrado delle periferie urbane e così via. D’altra parte, un uso poco equilibrato della forza o il rifiuto di qualsiasi tipo di confronto finiscono con il legittimare le posizioni più estreme. Si tratta di un antagonismo “ibrido”, nel senso che sfida tassonomie e paradigmi interpretativi ormai consolidati, come accade, appunto, con le guerre “ibride”, nelle quali si mescolano conflitti tradizionali, ondate di fake news, cyber-attacchi e campagne a carattere ideologico nelle istituzioni educative e culturali.

I principi dello Stato di diritto – la libertà di manifestazione del pensiero, la separazione tra politica e religione, il già citato paradigma garantista e così via – sono utilizzati come armi politiche. Riuscire a contrastare tali fenomeni senza mettere in discussione i fondamenti della cultura costituzionale è sicuramente una delle più grandi sfide che le democrazie devono affrontare negli anni Venti del XXI secolo.

 

 


Note

[1]  v. C. Sbailò, Verso l’integrazione antagonista? Istanze giuspubblicistiche dell’islam d’occidente, in: S. Andò, G. Alpa e B. Grimaldi, I diritti delle donne nell’area del mediterraneo, ESI, 2009.

[2] M. Abdou, Islam and Anarchism. Relationship and Resonances, London, Pluto Press, 2022.