L’insediamento di Joe Biden il 20 gennaio 2021 è destinato ad avere un’influenza molto rilevante nei confronti dell’America Latina. Una trasformazione che sarà certo di toni ma anche di sostanza e che non si deve tanto alla figura di Biden in sé, bensì a quella di Donald J. Trump che, nei quattro anni passati a Washington, aveva ribaltato la politica latinoamericana della Casa Bianca rispetto a quella del suo predecessore, Barack Obama.
Dal suo insediamento, Trump e il suo (secondo) Segretario di Stato Mike Pompeo – entrato in carica nell’aprile 2018 – avevano infatti rispolverato l’antica “dottrina Monroe” per sostenere la supremazia, ideale ed economica ma anche militare, degli Stati Uniti su tutte le Americhe, considerata come una regione in cui in resto del mondo (leggi: Cina, ma anche Russia e Iran) non poteva mettere bocca. Le pressioni contro Paesi come Venezuela, Cuba e Nicaragua sono cresciute, e alle parole infuocate di Trump sono seguite una serie di sanzioni senza precedenti.
Nemico giurato della Washington trumpiana, molto attivo in questi tre Paesi ma anche nel resto delle Americhe, è appunto la Cina, che dal 2016 ha superato gli Stati Uniti negli scambi commerciali con gran parte dei paesi latinoamericani. La Russia e l’Iran hanno molto rafforzato la propria presenza in Venezuela nell’ultimo lustro, soprattutto nella zona estrattiva dell’Arco Mineiro. E’ un rovesciamento di 180 gradi rispetto a quanto fatto da Obama che, pur non avendo la maggioranza in Parlamento (cosa che gli impedì di eliminare l’embargo contro Cuba) era giunto ad uno storico appeasement con L’Avana, e aveva ufficialmente “pensionato” proprio la dottrina Monroe.
Certo, verso l’America Latina Biden non potrà semplicemente tornare al modus operandi obamiano, perché oggi la regione non è più quella di dieci anni fa: basti solo pensare ai 40 milioni di nuovi poveri causati dalla pandemia, o al fatto che il Venezuela si è trasformato in una dittatura di fatto e la sua economia è letteralmente crollata, causando il maggior esodo di profughi delle Americhe negli ultimi 50 anni. Quasi sei milioni su una popolazione di 30 hanno traversato la frontiera, un dramma che sta destabilizzando l’intera regione e che impone sia trovata al più presto una soluzione per quello che, sino a 30 anni fa, era il Paese sudamericano più ricco pro capite.
Di sicuro Biden riattiverà l’appoggio degli USA al multilateralismo sui principali temi globali, dalle politiche per contrastare il cambiamento climatico e favorire la Green economy all’eguaglianza di genere per incrementare il ruolo delle donne nei posti di vertice, dalla lotta al razzismo a quella contro la violenza delle forze dell’ordine, dal rafforzamento dei diritti LGTB al reinserimento dei detenuti, da nuovi approcci verso i migranti a strategie comuni per affrontare in modo razionale le future pandemie e le catastrofi di carattere globale. Quella di Biden è un’agenda politica che sarà globalista tout court e, dunque, anche la politica diplomatica ed economica nei confronti dell’America Latina della sua amministrazione sarà tale, come ha commentato tra gli altri Shannon K. O’Neil su Bloomberg.
Se manterrà le promesse della campagna elettorale, Biden eliminerà presto il Migrant Protection Protocol con cui Trump in cambio di investimenti per 10 miliardi di dollari aveva ottenuto che il presidente del Messico, López Obrador, fermasse il flusso di migranti centroamericani. In questi ultimi anni, così, il Messico aveva ospitato circa 80.000 richiedenti asilo negli USA – quasi tutti migranti da America Centrale, Cuba e Haiti, in campi profughi lungo il confine con gli Stati Uniti.
Biden ha anche promesso di inviare nei suoi primi 100 giorni un disegno di legge al Congresso con un ‘percorso rapido verso la cittadinanza’ per gli 11 milioni di irregolari negli Stati Uniti, la maggior parte dei quali provengono da Messico, America Centrale e Caraibi. La nuova amministrazione dovrebbe inoltre legalizzare definitivamente i “Dreamers” promossi dall’amministrazione Obama, una mossa destinata a beneficiare oltre 700.000 giovani, quasi tutti messicani e centroamericani. Destinate ad aumentare – sempre se saranno mantenute le promesse elettorali – i fondi che gli USA trasferiranno a Guatemala, Honduras ed El Salvador per eliminare le cause strutturali delle migrazioni, ovvero in teoria aumentare la sicurezza, la trasparenza, la qualità della vita e la produttività per aumentare l’occupazione. In tutto si tratta di 4 miliardi di dollari, molti di più di quelli distribuiti dallo stesso Biden durante l’amministrazione Obama quando era direttore della “Alliance for Prosperity”.
Anche le nomine fatte sinora da Biden per le posizioni ministeriali che, direttamente, si occuperanno della regione al sud del Rio Bravo, fanno capire che il cambiamento ci sarà. A cominciare da quella del giovane colombiano Juan Sebastián González, primo consigliere di Biden per l’America Latina. Il suo compito sarà quello di assistere Biden sulle questioni di politica di sicurezza e affari esteri e coordinare tali politiche con le diverse agenzie governative USA. Questo colombiano, allevato a New York e scoperto alla Georgetown University da Obama che lo aveva piazzato al Dipartimento di Stato, sarà dunque una figura chiave per gli affari latinoamericani della nuova amministrazione Biden. Una pessima notizia per il presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, viste le dure critiche fatte di recente da González nei confronti dell’agenda ambientale del governo verde-oro.
Altra nomina importante è quella della diplomatica Roberta Jacobson che sarà l’incaricata della gestione delle relazioni di confine con il Messico, come ha confermato il 18 gennaio lo stesso González. Già ambasciatrice degli Stati Uniti in Messico, dal 2016 al 2018, la Jacobson ha guidato i negoziati per la ripresa dei rapporti con Cuba nel 2015. Fu lei in persona ad organizzare la visita dell’ex-presidente Obama nell’isola, l’anno dopo.
Nei rapporti bilaterali, Cuba sarà il Paese dove si vedrà con maggior forza il cambiamento di rotta rispetto a Trump anche perché, con i due senatori eletti al ballottaggio in Georgia lo scorso 5 gennaio, il prossimo inquilino della Casa Bianca ha la maggioranza piena in Parlamento, sia alla Camera sia al Senato e, dunque, Biden potrà porre fine all’embargo che Obama non riuscì a cancellare, nonostante ci avesse provato in ogni modo.
La fine di questo embargo che dura oramai da quasi 60 anni – lo introdusse l’amministrazione Kennedy nel lontano 1962 – avrebbe effetti economici positivi su entrambe le sponde del Mar dei Caraibi ma, soprattutto, toglierebbe alla dittatura cubana la scusa del “bloqueo” per giustificare se stessa ed i suoi fallimenti economici che ne hanno caratterizzato gli ultimi decenni, riducendo il 90% della popolazione, ovvero chiunque non abbia accesso alle valute straniere delle rimesse, in povertà.
Il Brasile è l’altro Paese per cui si possono prevedere cambiamenti radicali: il motivo è il già citato Bolsonaro. Se con il vecchio inquilino della Casa Bianca, infatti, il “Trump dei Tropici” (questo il soprannome del leader brasiliano) si sentiva quasi in dovere di dire qualsiasi cosa sui principali temi di attualità, in linea con la visione del mondo trumpiana – dalla non obbligatorietà dei vaccini, alla pandemia, da lui sottovalutata sin dall’inizio e definita come una “gripezinha”, una piccola influenza, dall’Amazzonia che “non è un bene comune ma brasiliana” all’economia che “viene prima della salute” – sarà ora interessante vedere come evolveranno i rapporti economico-commerciali tra Brasilia e Washington dal 20 gennaio in poi.
All’Amazzonia che continua a bruciare a ritmi elevati e allo scarso rispetto di Bolsonaro verso il problema del cambiamento climatico, Biden aveva già fatto riferimento in campagna elettorale. “Sono pronto a imporre sanzioni economiche contro il Brasile se non ridurrà il disboscamento dell’Amazzonia”, aveva detto il candidato Dem, accusando il brasiliano di essere di fatto “un piromane poco responsabile”. Con Biden alla Casa Bianca, sarà interessante vedere come il Brasile di Bolsonaro tenterà di ricucire un rapporto tanto necessario come compromesso, essendo stato tra l’altro il “Trump dei Tropici” uno degli ultimi a riconoscere la vittoria elettorale del nuovo presidente USA.