Mai l’attenzione nei confronti delle elezioni europee è stata così alta. I risultati delle elezioni del maggio prossimo condizioneranno non solo il Parlamento, ma anche (in modo diretto o indiretto) la nuova Commissione e financo – nel successivo risiko delle nomine – i nuovi Presidenti di Consiglio europeo e BCE.
La nuova aula e le alleanze che vi si realizzeranno saranno cartina di tornasole e banco di prova dei nuovi equilibri. Paradossalmente, dati gli annunci di crescita dei partiti euroscettici, la compenetrazione tra livello europeo e locale è in realtà ormai talmente significativa che le elezioni bavaresi – per le quali Horst Seehofer ha disertato un meeting europeo dei ministri dell’Interno – sono state il principale argomento di conversazione a Bruxelles nel fine settimana del voto.
Lo storico (e atteso) scivolone riportato dalla CSU – controparte bavarese della CDU di Angela Merkel – indebolisce ulteriormente la Cancelliera, destabilizzando l’unico punto politico fermo dell’ultimo decennio in Europa. Se il sistema istituzionale tedesco e il meccanismo della sfiducia costruttiva rendono poco probabile un cambio guardia anticipato a Berlino, il risultato di Monaco getta un’ombra sulla candidatura del cristiano-sociale Manfred Weber (attuale capogruppo dei popolari al PE) a prossimo Presidente della Commissione.
L’eurodeputato bavarese era stato indicato da una Merkel pressata dall’ala destra del suo partito, ma l’investitura da parte del congresso del Partito popolare europeo (PPE) a novembre appare ora più difficile. Weber ha già apertoalla destra nazionalista di Matteo Salvini e Viktor Orban, auto-assegnandosi il ruolo di “pontiere”, al fine di smussarne gli angoli anti-europei, con una mossa dal sapore quasi andreottiano. Il suo obiettivo è quello di disinnescare la radicalizzazione del voto, ponendo così in evidenza l’inconsistenza del cleavage sovranisti-europeisti che tanti commentatori hanno identificato come la vera chiave di lettura socio-politica del prossimo confronto elettorale europeo.
L’alleanza disegnata da Weber prevedrebbe la rottura dell’ormai usurata Grosse Koalition su cui si è sempre fondato l’equilibrio politico dell’europarlamento e di tutto il sistema istituzionale dell’UE. Per comprendere questa dinamica dobbiamo guardare a fondo alle mosse di due dei protagonisti attuali della scena politica europea.
Il partito del premier ungherese Viktor Orban, Fidesz, è già membro del PPE e non è intenzionato ad uscirne – volontariamente. L’atteggiamento affatto conciliante assunto da Orban in occasione della sua ultima visita all’europarlamento conclusasi, in settembre, con la votazione a favore dell’attivazione della procedura dell’Articolo 7nei confronti dell’Ungheria, è infatti spia della sua intenzione di spostare verso destra l’asse del partito popolare europeo. Obiettivo che tenterà di portare a compimento al congresso di novembre, con l’aiuto, in primis, del gruppo di Visegrad (composto, oltre all’Ungheria, da Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia) e nell’assenza di reale opposizione da parte del giovane premier austriaco Sebastian Kurz – titolare della Presidenza semestrale del Consiglio). La vittoria della linea Orban dentro il PPE semplificherebbe ulteriormente un’alleanza a destra, sia in chiave di controllo del Parlamento che di esclusione dei socialisti, nonché di ipoteca sulle altre cariche. Il PPE, sull’Articolo 7, si è spaccato: 114 deputati hanno votato contro il governo ungherese, 57 a favore, 28 si sono astenuti.
Matteo Salvini, dal canto suo – forte del ruolo da vicepremier e di un vasto consenso in patria – parrebbe, nell’ultimo periodo, aver smussato appena gli angoli: niente più dichiarazioni sull’uscita dall’euro, né sulla distruzione dell’UE. Certo, in occasione della presentazione della manovra economica italiana a Bruxelles, i toni si sono rialzati, e il segretario leghista ha recentemente incontrato Marine Le Pen a Roma. Ma non ha chiuso la porta in faccia a Weber; d’altronde, in patria, la Lega mantiene numerosi accordi di governo locale con il centrodestra di area PPE. Il leader italiano avrebbe certamente voluto coinvolgere Orban nella “Internazionale dei nazionalisti” che, da mesi, si adopera a costruire. Oltre a Lega e Rassemblement National, ne farebbero parte sicuramente altri nazionalisti di destra come gli austriaci di Heinz-Christian Strache (al governo con Kurz), i belgi di Geert Wilders e la tedesca AfD. Ma l’ambizione di Salvini è un’alleanza più vasta, che includa i paesi del nord Europa, a partire dai democratici svedesi di Akesson. Proprio a questi, per suggellare il patto, Salvini potrebbe proporre di esprimere il candidato comune alla Presidenza della Commissione, ottenendo così anche un credito da riscuotere diversamente.
La maratona del vicepremier italiano verso le elezioni europee prevede, strategicamente, l’identificazione di un nemico chiaro, e il Presidente francese Emmanuel Macron presenta le caratteristiche perfette per la narrativa salviniana. I due leader si sono “scelti” reciprocamente come nemici e catalizzano così l’attenzione dei media impostando lo scontro elettorale sul succitato cleavage “più Europa”/“niente Europa”. Entrambi si presentano come novità rispetto all’”establishment europeo”, percepito dai cittadini distante e colpevole delle loro sofferenze.
L’antagonismo tra i due è stato rafforzato dalla pubblicazione del “manifesto anti-sovranisti” lo scorso 27 settembre, sottoscritto da una serie di esponenti riconducibili ai gruppi politici liberali di ALDE e socialdemocratici di S&D, entrambi in attesa del posizionamento parlamentare di En Marche. Nonostante sia stato ministro del governo socialista di Manuel Valls durante la presidenza di François Hollande, la naturale collocazione politica di Macron – che si descrive esterno allo schema destra/sinistra – sembra più vicina ai liberali che alla socialdemocrazia. A partire da un patto con il primo ministro olandese Mark Rutte, l’idea pare quella di costruire una coalizione intorno ad una piattaforma comune, da far evolvere in partito politico (che, per ragioni di marketing, non figurerebbe più come “liberale”) solo dopo le elezioni – anche in modo da disinnescare le ambizioni del fiammingo Guy Verhofstadt, attuale capogruppo ed esponente più in vista di ALDE.
Macron, che già ha sviluppato un rapporto solido con gli spagnoli di Ciudadanos, potrebbe quindi dar forma ad un soggetto nuovo da costruire “sulle ceneri” dell’ALDE, dal quale recupererebbe un manipolo di giovani leader europeidi estrazione variamente centrista, cui affiancare partiti di nuovo ingresso.
Tanto Salvini quanto Macron mirano quindi a competere, come seconda forza, con un PPE stanco e in difficoltà, partecipando da co-protagonisti al gioco delle nomine ed accrescendo il proprio riconoscimento personale. Altro tratto comune è il l’ideale del “ritorno” – anche se in modo totalmente diverso – ad un’Europa delle nazioni. Se per i nazionalisti ciò è evidente, dall’altra parte si esplica (anche) nel rifiuto di Macron e Rutte della logica dello Spitzenkandidat. Invece che accettare che il capolista del partito più votato sia automaticamente candidato a Presidente della Commissione, i capi di stato francese e olandese preferirebbero far leva sul peso della loro coalizione: questa, dopo il voto, potrebbe contare fino ad otto membri nel Consiglio europeo, forse abbastanza per contrapporsi all’influenza di una Germania indebolita. Si fanno quindi i nomi, in questo campo, di Michel Barnier (capo negoziatore per la Brexit) e Margarethe Vestager (attuale commissaria danese alla Concorrenza e “castigatrice” dei giganti tecnologici americani).
Rientra qui, nello schema di gioco, anche la presidenza della BCE. Fino alle elezioni tedesche di un anno fa, Emmanuel Macron puntava sul vecchio motore franco-tedesco per rilanciare il ruolo della Francia in Europa e la stessa UE. L’attuale governatore della Bundesbank, Jens Weidmann, pareva il primo in lizza per la poltrona di Francoforte (davanti all’omologo francese), in cambio – probabilmente – di un Michel Barnier a Berlaymont. La vittoria azzoppata di Merkel e le pressioni alla sua destra hanno però portato la Cancelliera a sostenere Weber alla guida della Commissione; contemporaneamente, anche Macron si indeboliva progressivamente. Lo schema potrebbe quindi riproporsi, ma a parti invertite e per vie differenti. Non è da escludere che Merkel scelga Bruxelles come personale way out laddove la situazione a Berlino diventasse insostenibile – se non proprio a guida della Commissione (altamente improbabile), almeno del Consiglio europeo.
Nello scenario generale, emerge con prepotenza la mancanza di un’offerta politica coerente e unitaria della sinistra europea. Le socialdemocrazie sono in crisi in molti Paesi membri, è vero, ma questo anche proprio in ragione della loro incapacità di offrire una lettura convinta e convincente del mondo globalizzato, e un disegno di intervento. Proprio a livello europeo la subalternità e lo smarrimento delle sinistre post-1989, convinte dell’importanza di perseguire il sogno europeista senza però imporsi per plasmarlo secondo coordinate proprie, ha determinato la costruzione di un’UE che da un lato prevede vincoli fiscali alle politiche economiche nazionali -subordinandole alla stabilità monetaria- e dall’altro pochissimo ha fatto per gli obiettivi di carattere sociale e crescita uniforme.
Il gruppo dei Socialisti & Democratici sarà fortemente ridimensionato: nei paesi che distribuiscono più seggi, le previsioni sono al ribasso per il PD italiano e l’SPD tedesca, per non parlare della Francia. Il partito ad oggi, ha identificato come possibile Spitzenkandidat l’attuale vice-presidente, l’olandese Frans Timmermans, esponente di un partito che nei Paesi Bassi è precipitato alle elezioni dello scorso anno sotto il 6%. In continuità quindi, in primissimbolica, con l’attuale establishment, ma anche con un gruppo dirigente percepito come invecchiato, bloccato e in declino.
Formalmente la Groβe Koalition tra PPE e S&D è venuta meno già con l’elezione del PPE Antonio Tajani a Presidente del Parlamento – da sommare a un Presidente della Commissione e del Consiglio europeo entrambi di estrazione popolare. Ma questa ha di fatto resistito nelle abitudini di organizzazione dei lavori e di voto dell’assemblea. È paradossale che proprio la parte perdente appaia, anche in prospettiva futura, rimanervi legata.
Nell’alveo della sinistra cosiddetta radicale, le cose non vanno molto meglio. Nella babele di posizioni che storicamente la caratterizza, si confrontano oggi esperienze di respiro sovranista come quella della France insoumise di Jean-Luc Mélenchon da un lato, e movimenti di riforma coerente e precisa dell’Unione ma dichiaratamente pro-europeisti dall’altro, raggruppati sotto l’etichetta Diem25 di Yanis Varoufakis, ex ministro dell’Economia del governo greco di SYRIZA. Verosimilmente, e forse anche per questo, il partito di Alexis Tsipras sarà chiamato, nel post-elezioni, a svolgere un ruolo di pontiere tra questa sinistra e i socialisti europei: Diem25dovrebbe presentarsi in 18 paesi, tra cui l’Italia.
Le prossime europee vedranno infine l’ingresso in Parlamento di una serie di forze politiche “nuove” in tutti i sensi, in cerca di collocamento. È questo anche il caso del Movimento 5 Stelle, eurocritico ma non euroscettico, che riporterà senza dubbio a Strasburgo una squadra nutrita, ma al quale l’alleato di governo ha, di fatto, sbarrato la strada a qualsiasi accordo con Macron. Il M5S dovrà sciogliere il rebus della sua collocazione parlamentare: quella attuale, in coabitazione con i britannici di UKIP, non può essere mantenuta in ragione della Brexit. Anche i Verdi (europeisti convinti hors casi isolati), che, a metà della legislatura in corso, parevano poter accogliere il M5S, appaiono generalmente in sofferenza. Anche se c’è da registrare l’eccezione della Germania (dove hanno storicamente un carattere particolare), come dimostra il risultato bavarese, e di alcuni Paesi limitrofi, come Austria, Belgio, Olanda e Danimarca, dove i Verdi si dimostrano in buona salute.
Secondo la mappa interattiva sviluppata da Politico, gli anti-europeisti potrebbero, in totale, arrivare ad ottenere circa 160 seggi su 705 (secondo la nuova distribuzione e somma dei seggi post-Brexit). Il magazine rassicura circa la tenuta del progetto europeo in sé, ma il panorama politico è in fermento, così come il sistema di alleanze. E con un sistema proporzionale puro come quello utilizzato per il Parlamento europeo, qualsiasi previsione è azzardata. L’unica certezza è che, se i picconatori dell’UE non la spunteranno, il prossimo quinquennio sarà davvero l’ultimo a disposizione per cambiare l’UE e avvicinarla, tanto nelle politiche quanto nelle procedure, ai bisogni e ai desideri dei cittadini europei.