Verde ma non troppo: Realpolitik del clima

Esce il 9 ottobre il nuovo numero di Aspenia (86) dedicato ad ambiente, politica ed economia

Clima e ambiente sono diventati temi centrali nella società e dunque nella politica, come confermano le manifestazioni in molte città sparse per il mondo nei giorni attorno al Climate Action Summit 2019 dell’ONU, a New York (21-23 settembre). Il movimento noto come Fridays for Future è un catalizzatore di gruppi variegati che hanno una forte impronta generazionale giovanile.

Il governo tedesco, proprio negli stessi giorni, ha varato un “pacchetto clima” piuttosto ambizioso e soprattutto costoso – che ha registrato già alcune critiche.

Non c’è dubbio che la questione ambientale stia compiendo un cambio di passo, con una consapevolezza più diffusa e sostanziale del problema e della sua urgenza. Come la mobilitazione civica si possa tradurre in tangibile azione politica e in impegni economici durevoli ed incisivi  è un quesito ancora aperto. E’ anzi uno dei più grandi quesiti dei prossimi decenni.

 

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Partiamo da alcuni dati di fatto molto semplici, all’interno di un dibattito sulle sfide climatiche e ambientali che resta in realtà assai complicato. Primo. Una fase di cambiamenti climatici globali è in atto, come avvenuto in ere passate. E ha effetti macroscopici allarmanti a prescindere dalle sue cause. Che siano antropiche – l’evidenza scientifica va in questo senso – e soprattutto in quale misura lo siano, resta che l’alterazione del clima è un problema di sicurezza globale, pone questioni crescenti di costi materiali e umani e apre evidenti dilemmi per ciò che riguarda i rimedi. Fra gli ideologi della svolta verde e i pragmatici della transizione energetica, Aspenia propende per la seconda scuola di pensiero: verde ma non troppo, ambiziosa ma con la giusta percezione delle difficoltà e dei limiti.

Secondo. L’attuale mix energetico è ancora dominato dalle fonti fossili e rimane alquanto sbilanciato, nonostante l’aumento significativo delle fonti rinnovabili – che partendo da livelli ben sotto il 10% stanno crescendo a ritmi accelerati. Il modello energetico esistente non permette la riduzione di emissioni che sono comunque nocive. Un ruolo essenziale, in questa fase di passaggio, è svolto dal gas e dal nucleare.

Terzo. Il mix energetico sta tuttavia cambiando – la previsione comunemente accettata è che entro il 2050 oltre il 60% della produzione sarà garantita dalle rinnovabili. Gli investimenti, indicatore fondamentale delle tendenze in atto, sono ormai nettamente superiori nelle fonti rinnovabili che in quelle convenzionali. Questa trasformazione ha e avrà conseguenze geopolitiche molto rilevanti: il potere su scala internazionale ne verrà modificato, in particolare se i petrostati non riusciranno a diversificare le proprie economie. Quarto. La chiave per accelerare una transizione necessaria è realizzarla in modo “business friendly”, combinandola a uno sviluppo economico più sostenibile, con i suoi corollari: “green bonds”, cambiamento dei consumi, economia circolare e così via… Energia ed economia si intrecciano, da sempre. Infine, ma non in ultimo: le politiche di contrasto al cambiamento climatico sono diventate un terreno di competizione ideologica e producono effetti sociali che andranno governati per assicurare un consenso sufficiente.

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Ma vediamo più in dettaglio.

La transizione energetica è ormai in atto, anche se con ritmi diseguali in paesi e settori diversi. La traiettoria è sufficientemente chiara e tenderà a consolidarsi nei prossimi decenni. Ma le scelte politiche continuano a dividere. Per l’Europa emersa dalle ultime elezioni, la “neutralità climatica” è una priorità: Ursula von der Leyen, nelle sue linee programmatiche di nuovo presidente della Commissione, propone un “Green Deal”. Sul versante opposto la presidenza americana: Donald Trump, dopo avere rigettato gli Accordi di Parigi del 2015, resta schierato nel campo dei “clima scettici”, mentre l’America è ormai diventata uno dei grandi produttori ed esportatori di gas grazie alle tecnologie shale. Il Green Deal resta, sul piano politico, appannaggio dell’opposizione democratica; ma progredisce nei fatti in larga parte degli stati americani, grazie alla forza economica e tecnologica su cui può fare leva.

In Europa, come spiegano alcuni articoli di questo numero di Aspenia, le intenzioni (o illusioni) appaiono più rilevanti dei fatti: la domanda di petrolio è aumentata per tre anni consecutivi. Sull’altro lato dell’Atlantico, i fatti si muovono incuranti delle dichiarazioni politiche. Per il resto, la Cina superfossile diventa anche leader delle rinnovabili; mentre i grandi petrostati, dalla Russia all’Arabia Saudita, tentano di fare i conti con un futuro che sarà segnato, con maggiore o minore velocità, dalla traiettoria della decarbonizzazione. Ma a breve e medio termine, stima l’OPEC, si avrà comunque un aumento consistente della domanda di combustibili fossili, trainato soprattutto dal trasporto aereo.

Se il “climate change” è una realtà, se la transizione energetica è in corso, vi rispondono – come si vede – scelte politiche e segnali economici ambigui. Varie tecnologie pulite o sostenibili sono ormai mature per la diffusione su larga scala nei mercati, ma beneficiano tuttora di incentivi pubblici. Molte aziende stanno convertendo i loro prodotti, servizi e processi nella direzione “verde”, a volte in assenza di politiche statali coerenti e quindi in base a un calcolo più complessivo di come si stanno muovendo i mercati e i consumatori. L’Europa si vuole Verde; e tuttavia il consumo del vecchio carbone resiste non soltanto in Cina ma nel cuore economico del nostro continente (anche per la rinuncia tedesca al nucleare). Siamo insomma di fronte a luci e ombre, con una trasformazione necessaria ma largamente incompleta e troppo lenta, che richiederà forti investimenti e incontra comunque una serie di ostacoli. A che condizioni un Green Deal ha possibilità di riuscire?

Aspenia cerca di rispondere a questa domanda, presentando i ragionamenti a favore della “conversione verde” per capirne costi, tempi e modalità realistiche. E presentando, al tempo stesso, una serie di obiezioni possibili. Perché la transizione energetica progredisca, sia l’economia che la politica del clima devono compiere passi in avanti.

Esiste in effetti una forte dimensione politica nella “questione verde”. L’elemento ideologico non è secondario, perché la sostenibilità ambientale – come dimostra l’ascesa di nuovi partiti verdi in Europa – tende a trasformarsi in una delle dimensioni dello scontro di idee post novecentesco. Il tratto comune, guardando alle piattaforme dei Verdi europei e dei “Green New Dealers” americani, è che gli obiettivi strettamente ambientalisti vadano combinati con dossier più vasti di “riforma” del capitalismo contemporaneo.

La speranza è di innescare, attraverso la leva ambientale, dinamiche virtuose di efficienza economica (grazie a innovazioni tecnologiche selettive), profitto (con creazione di posti di lavoro) e crescita sostenibile; il tutto con politiche statali attive per la redistribuzione e la gestione “equa” dei costi. L’assunto (largamente ottimistico, a noi pare) è che, a fronte di un quadro regolatorio adeguato, il business e gli stessi cittadini diventeranno protagonisti attivi della transizione, e non soltanto svogliati oggetti passivi di imposizioni governative o di scelte dei produttori. Una parte di questo meccanismo dovrebbe passare per un maggiore utilizzo di incentivi positivi, invece che di penali e divieti – anche in base alla considerazione che la competizione crescente nei settori ad alta sostenibilità crea di per sé opportunità economiche e che dunque gli “early movers” avranno un vantaggio comparato.

Sempre guardando alla dimensione politico-ideologica, alcune posizioni “radicali” (come quelle di Naomi Klein, da sempre su posizioni anticapitaliste) auspicano oggi una saldatura tra ambientalismo e trasformazione economica verso un nuovo “social compact”. (Si veda “Changing the game: Why tackling environmental and economic problems must coincide”, Times Literary Supplement, 7 giugno 2019.)

L’obiettivo, insomma, non è solo la crescita a zero emissioni ma anche la lotta alle disuguaglianze (compreso reddito minimo e/o lavoro garantito per tutti) e soprattutto la guerra aperta alle multinazionali. Qui le cose si complicano, perché la trasformazione che è stata avviata ha bisogno, per riuscire, di tutte le eccellenze nel campo dell’innovazione. E dovrà essere accompagnata da scelte flessibili e pragmatiche, proprio per garantirsi un consenso sufficiente – basti pensare all’esperienza di Emmanuel Macron con i gilet gialli, le cui proteste furono scatenate inizialmente dal tentativo di imporre una tassa “verde” sui carburanti.

La questione, ancora più ampia delle critiche al capitalismo sotto mentite spoglie ambientaliste, è che esistono numerosi trade-off, ossia forti costi da sopportare e quindi da distribuire prima che i vantaggi risultino tangibili. Si aggiungono una serie di dilemmi da affrontare con un approccio più consapevole. Facciamo un primo esempio: nessun regolatore o agenzia governativa sa in anticipo e con precisione quale specifica tecnologia maturerà prima e meglio per risolvere un problema di emissioni nocive. Se ciò fosse davvero chiaro, gli investitori internazionali si concentrerebbero su singoli settori, la cui produzione non avrebbe alcun bisogno di incentivi. Poiché non è così, i finanziamenti pubblici (o pubblico-privati che siano) dovranno essere diversificati, piuttosto che focalizzati; il che a sua volta implica una certa dispersione di risorse, lasciando che il mercato sperimenti varie soluzioni alternative, alcune delle quali falliranno del tutto.

Mentre si sviluppano le auto elettriche, ad esempio, è bene forse continuare il lavoro sull’idrogeno come fonte energetica. Insomma: è davvero semplicistica l’idea che i governi (o qualunque organizzazione internazionale) sappiano usare con precisione chirurgica la spesa pubblica per sostenere i “campioni” tecnologici di settori all’avanguardia della sostenibilità; l’esperienza insegna, del resto, che la ricerca di base (cruciale per l’innovazione) necessita di finanziamenti a lungo termine senza garanzie di successo commerciale. In qualche misura, si dovrà procedere per tentativi.

Un secondo esempio può essere questo: gli investimenti in progetti pluriennali di riconversione verde su larga scala richiedono quasi sempre aziende di grandi dimensioni, ma ciò contrasta con la volontà di limitare (se non attivamente combattere) gli oligopoli e distribuire (invece di concentrare) i profitti. La tutela della concorrenza può però frenare l’innovazione, che richiede massicci flussi finanziari.

È probabile allora che serva un mix di grandi aziende e innovatori più agili (e spesso più creativi), anche a vantaggio di mercati tecnologici competitivi e dinamici come volano di una trasformazione strutturale.

In conclusione, conviene diffidare di una rivoluzione verde presentata come un passaggio alla frugalità e magari alla decrescita. Non si tratta infatti di tornare a un mitico passato bucolico preindustriale, ma di guardare avanti con tutti gli strumenti a nostra disposizione.

 

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Come dimostra questo numero di Aspenia, la transizione ambientale è un processo complicato, a più livelli e con molti attori coinvolti. Può progredire a tre condizioni fondamentali: la prima soprattutto economica, la seconda politica, la terza principalmente sociale.

La condizione numero uno è che l’agenda verde coinvolga pienamente il mondo imprenditoriale e produttivo. In sostanza, la nuova “onda verde” sarà molto più potente se riuscirà a lavorare con il business e non contro di esso: soltanto così potremo sviluppare le soluzioni tecniche di cui abbiamo bisogno, a costi accettabili. Il “Watch” del Boston Consulting Group dimostra la razionalità economica di politiche ambientali ben concepite.

In secondo luogo, la preoccupazione e la sensibilità per l’ambiente non devono essere strumentalizzate per rivolgere attacchi radicali (e di marca tutta politica) al capitalismo del XXI secolo – perché così si rischia di screditare, a lungo andare, la stessa agenda genuinamente ambientalista. Sostenibilità ed equità hanno delle correlazioni, ma non si possono sovrapporre; farlo significa confondere e diluire obiettivi, scelte politiche, strumenti di azione.

La terza condizione è di tipo sociale: devono modificarsi le abitudini dei consumatori, che sono ovviamente un ingrediente essenziale della transizione. Cosa che sta accadendo, ma con alcuni effetti indesiderati e trend da seguire attentamente. Politiche di compensazione sociale sono probabilmente necessarie per favorire la transizione energetica. Uno studio della Fondazione Enel, ad esempio, conclude che l’Unione Europea trarrà grandi benefici economici complessivi dall’elettrificazione prevista nei prossimi anni – anche in quanto strumento di decarbonizzazione; ma spiega inoltre che l’impatto su alcuni settori industriali e lavoratori richiederà misure specifiche, da strumenti finanziari per incentivare l’innovazione a forme di sostegno alle fasce sociali più colpite (formazione e apprendistato, ma anche revisione delle stesse tariffe energetiche).

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I consumi sono connessi alla responsabilità sociale dei cittadini-utenti, che decidono quali e quanti beni e servizi utilizzare. Ne parliamo nella sezione Forum, che analizza alcune linee di tendenza note da tempo – come gli effetti dell’invecchiamento della popolazione – ma anche altre che sono spesso sottovalutate. In particolare, è rilevante il dato dell’impronta ecologica, che cresce nonostante il graduale passaggio da un’economia dei beni a una dei servizi: come scrive Frank Trentmann, aumentano le risorse necessarie per viaggi e turismo, ma anche per gli elettrodomestici e naturalmente per l’enorme infrastruttura digitale di cui facciamo uso ininterrotto. Tutto ciò significa elettricità da produrre, impianti e centraline di varie dimensioni, chilometri di cavi. Intanto, oltre al massiccio utilizzo di acqua per mille usi (compresi gli allevamenti per la carne), cresce la frequenza con cui si acquistano pasti fuori casa e si comprano oggetti online – con i relativi effetti sulla mobilità locale, la logistica e la grande distribuzione.

Come è facilmente intuibile, le società più avanzate sono sempre più avide di energia, di connessioni e di informazioni; queste esigenze hanno dei costi ambientali, e non basta la raccolta differenziata dei rifiuti o un’etichetta di “ecosostenibilità” per risolvere il problema. Certo, a fronte di queste tendenze c’è anche la crescita della “sharing economy” e un’evoluzione dei consumatori verso modelli meno legati agli oggetti in quanto status symbol, come ricorda Alberto Mattiacci nel suo articolo.

Il quadro resta comunque transitorio e variegato, a conferma che le economia avanzate si trovano letteralmente in mezzo al guado, con ambizioni e progetti postindustriali ma atteggiamenti e infrastrutture ancora assai tradizionali. Ragionare in termini di modelli di consumo aiuta a capire i termini del dibattito: è necessario rinnovare i meccanismi sia dell’offerta (produzione) che della domanda (consumo) affinché emergano diversi comportamenti consolidati (sostenibilità).

In ultima analisi, cambiare anche radicalmente i paradigmi energetici ed economici per non danneggiare il pianeta Terra è possibile. È tecnicamente fattibile e può essere economicamente vantaggioso. Tuttavia, non dobbiamo confondere questo progetto ambizioso con la palingenesi del capitalismo, con le critiche alle democrazie occidentali o con lo stravolgimento del sistema internazionale fondato sugli Stati. Cosa che alcuni fautori del cambiamento verde sembrano dimenticare.

 

 

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