Forse il Medio Oriente è davvero piombato in quella che Richard Haass ha definito una nuova guerra dei trent’anni, caratterizzata dalla indistinguibilità tra guerre civili e guerre per procura. Se il quadro è così terribile il rinnovato interesse di “nuove” potenze esterne in grado di influenzarne l’evoluzione – come Cina e Giappone – appare paradossalmente un segnale di speranza – seppur ancora nebuloso – più che una ulteriore fonte di conflitti.
Mentre la Russia torna a svolgere un ruolo chiave e si conferma l’inadeguatezza delle iniziative assunte dagli Stati Uniti e dai partner europei (dagli interventi militari in Iraq, Siria e Libia, alla maldestra gestione delle primavere arabe) le new entry estremorientali, provenienti da orizzonti geografici e culturali alternativi, consentono infatti di ipotizzare l’immissione, nella gestione delle crisi in atto, di approcci più produttivi in vista dell’obiettivo – condiviso, in teoria, da potenze grandi e medie – della stabilizzazione regionale.
La maggiore novità è costituita dalla Cina: una novità, sebbene già da parecchi anni l’Impero di mezzo sia divenuto il maggiore partner commerciale dei principali produttori di petrolio della regione. Pechino ha infatti rotto il guscio di una politica di basso profilo, inizialmente basata solo sulla ricerca di sicurezza energetica grazie agli idrocarburi del Golfo e di sbocchi per la sua sovrapproduzione, per dare ora spessore all’ambizione di acquisire responsabilità globali. Ne deriva una “piattaforma di cooperazione” attenta agli interessi dei partner regionali (specie nel settore del nucleare civile e delle energie alternative oltre alle infrastrutture) e soprattutto un inserimento nelle zone più calde anche a livello diplomatico. Sulla Siria, Pechino ha dato un contributo all’interno sia del Gruppo di supporto internazionale sia del Consiglio di sicurezza ONU, giunto finalmente all’approvazione di una risoluzione (la n. 2254) dopo tre fumate nere. E tra dicembre e febbraio ha dato avvio a una sorta di negoziato alternativo. Nelle crescenti tensioni tra Arabia Saudita e Iran coi loro riflessi su Siria e Yemen la Cina è entrata nelle vesti, se non di mediatore, almeno di moderatore dotato di strumenti nuovi (come i progetti relativi a un Fondo comune di investimenti da 20 miliardi di dollari e a un’Area di libero scambio con i sauditi e gli emirati del Golfo).
Evitare l’emergere (o quantomeno la proliferazione) di Stati falliti e lo spillover dell’instabilità è la parola d’ordine. Ci si sforza di rispettare il mantra della “non ingerenza” con l’eccezione della lotta al terrorismo, ma non sempre ci si riesce. Nella sua visita a Riyadh (19 gennaio), ad esempio, il presidente Xi Jinping ha affermato in riferimento allo Yemen che Pechino ne sostiene il “governo legittimo” di Abdrabbu Mansour, amico dall’Arabia Saudita (coerentemente con la non ingerenza), ma non fino ad approvare l’intervento militare saudita. Insomma non appoggia la ribellione sciita degli houthi sostenuta dall’Iran, ma neppure appoggia chi la combatte militarmente. Sulla crisi siriana, invece, nessuna obiezione ai bombardamenti russi in nome della “legittimità” del regime di Bashar al-Assad. Quasi a voler mandare un messaggio di equidistanza, sono poi stati invitati a Pechino sia il ministro degli esteri Walid al Moallem sia il presidente della coalizione dei ribelli, Khaled Khoja.
Il veloce, quasi repentino cambiamento di rotta verso un maggiore attivismo – poco in sintonia con l’abituale accortezza della diplomazia di Pechino – è stato messo in relazione col negativo andamento dell’economia cinese. Su Foreign Affairs, Robert Kaplan avvertiva che “Cina e Russia mostrano i muscoli non perché sono forti ma perché sono deboli”. L’assunto è verosimile, ma forse si applica meglio a quello che Xi Jinping considera il cortile di casa, ovvero il Mar Cinese Meridionale. Nel per lui lontano Medio Oriente non ha bisogno di approcci interventisti o “assertivi” in stile putiniano. Nell’evidente mancanza di credibilità delle soluzioni finora proposte, la nuova linfa portata dalla Cina trova facile accoglienza. E, nell’attuale quadro fortemente multipolare, Pechino non ha neppure bisogno di porre un’alternativa secca tra la sua presenza/influenza e quella di Washington.
Il Giappone non sembra intenzionato a seguire la Cina lungo questo percorso, limitandosi a una business diplomacy pur politicamente arricchita dallo sforzo di togliere spazio agli arcirivali cinesi. Fulcro della politica mediorientale di Tokyo è, come per la Cina, la sicurezza degli approvvigionamenti energetici. Ma a parte questo primario interesse, le strade si dividono. La visibilità in Medio Oriente, che passa per esempio attraverso gli aiuti ai profughi, mira per Tokyo a ottenere sostegni per accedere a un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
In realtà, sul piano diplomatico, pur tentando di sfruttare la sua verginità in relazione alle responsabilità del colonialismo, il Giappone appare poco incisivo. Lo limita soprattutto l’allineamento alle posizioni americane. La scelta è del resto funzionale al significato che il premier Abe Shinzo ha dato alla alleanza con gli Stati Uniti, il cui punto centrale è l’aiuto reciproco. Tokyo lo offre senza riserve agli americani, anche grazie al principio del diritto all’autodifesa collettiva (la formula che consente interventi all’estero nel rispetto degli obblighi imposti da una alleanza), alle nuove leggi sulla sicurezza e all’accresciuto impegno a fornire uomini per peacekeeping e per interventi umanitari. In cambio pretende e ottiene da parte di Washington un ombrello pieno di fronte alle minacce – supposte o reali – della Cina.
E’ evidente comunque che oggi questo “scambio di favori” non si sostanzia in Medio Oriente, bensì nei mari che circondano la Cina, in particolare il Mar Cinese Meridionale, dove Stati Uniti e Giappone operano di conserva per “contenere” le pretese cinesi. In sostanza, l’approccio nipponico rimane molto cauto, ma potrebbe dare qualche contributo costruttivo a progetti di ricostruzione statuale e stabilizzazione in Medio oriente, in stretto coordinamento con le iniziative future di Washington.
Certo è che gli orizzonti di Pechino sono, già oggi, ben più vasti, ormai anche a livello militare. La miglior prova è l’accordo raggiunto nei giorni scorsi per la creazione di una base militare a Gibuti. È stata la conclusione di una lenta marcia di avvicinamento cominciata con l’adesione cinese alla missione internazionale contro la pirateria nelle acque somale nel 2008. Gli Stati Uni non hanno potuto – né forse voluto – impedire che ciò avvenisse, malgrado si tratti di un cambiamento strategico di portata sistemica: Gibuti sarà la prima base cinese lontano dalle acque territoriali e sarà utilizzata, ben al di là del contrasto della pirateria, per quella proiezione di potenza che la Cina persegue in tutta l’area dell’Oceano Indiano.
Perno di questa linea espansionistica è la realizzazione della nuova “Via della seta”, in cui Gibuti ben si inserisce non fosse altro perché serve a controllare il Mar Rosso e quindi quel “Corridoio di Suez” che dovrebbe avere come terminale un secondo Canale (gli egiziani sono entusiasti dell’idea a cui hanno deciso di affiancare quella di costruire una nuova capitale, sempre con soldi cinesi). Il progetto, annunciato nel 2013, secondo le parole di Xi Jinping scavalca la obsoleta idea dalle sfere di influenza. Almeno nella fase attuale la via della seta è una rete di connessioni il cui presupposto non è la presenza di vincoli politici, bensì la stabilità. Può convivere pertanto con il rispetto degli interessi americani. Lo si è visto in Pakistan e perfino a Gibuti (dove anche gli Stati Uniti hanno una base militare, subaffittata dalla Francia). Lo schema potrebbe ripetersi in un bilanciamento di responsabilità nel contenzioso irano-saudita, con Pechino intenta a moderare i bollori iraniani e Washington quelli di re Salman. La più o meno tacita intesa poggerebbe sul fatto che anche nei momenti di maggiore tensione tra Iran e Occidente, la Cina ha tenuto conto delle richieste americane, ha ridotto l’import di petrolio iraniano ed è stata parte attiva del negoziato che ha portato alla fine delle sanzioni sulla questione nucleare.
Per il futuro, che si prevede porterà a un grande incremento dell’interscambio con l’Iran (da 50 a 600 miliardi di dollari in dieci anni) e a un massiccio afflusso di investimenti cinesi, Pechino non ha bisogno di alimentare tensioni con Washington. Semmai sono gli ayatollah a distinguere pericolosamente tra economia e ideologia: la guida suprema Ali Khamenei, incontrando Xi Jinping il 23 gennaio, ha ribadito di non fidarsi degli americani. Inoltre l’Iran punta – proprio con l’appoggio della Cina – a un rapido ingresso, ora che non lo vietano più le sanzioni internazionali, nella SCO (Organizzazione per la cooperazione di Shanghai).
La SCO dovrebbe dare una cornice multilaterale alla Via della seta e porre le basi per una sorta di sicurezza collettiva che libererebbe l’Iran dalle sue ossessioni, ma rischierebbe di riproporre schemi da guerra fredda. La SCO infatti, come i cinesi amano sottolineare, è uno dei pochi organismi multilaterali da cui gli Stati Uniti sono esclusi. E il fatto che invece ne faccia parte anche la Russia darebbe al suo allargamento al Medio Oriente un significato particolare.