USA: la sfida politica posta da una Corte Suprema politicizzata

Quello giudiziario – scriveva Alexander Hamilton/Publius nel Federalista n.78 (1788) – è senz’ombra di dubbio “il più debole dei tre poteri” previsti dalla Costituzione degli Stati Uniti. Se l’Esecutivo dispone della “spada” dell’azione di governo e il Legislativo dei “cordoni della borsa” (commands the purse), il Giudiziario non può incidere né sull’una né sull’altra: non ha, in ultimo, “forza” o “volontà”. La sua indipendenza, per la quale – Hamilton/Publius argomentava – era indispensabile la “nomina vitalizia” dei giudici della Corte Suprema, richiedeva una separazione netta dagli altri due poteri, onde evitare che un’unione di questi potesse sfruttare l’intrinseca debolezza di quello giudiziario.

Come tutti i suoi contemporanei, Hamilton/Publius non poteva immaginare un futuro caratterizzato dall’emergere di fazioni e partiti, da un sistema da subito lacerato dalla dialettica tra il potere federale e quello statale, da pesi e contrappesi teorici destinati in realtà a creare un intreccio, e un’interdipendenza, inestricabili tra Esecutivo, Legislativo e Giudiziario.

Quest’ultimo, e il suo organo e simbolo primario – la Corte Suprema – tutto è stato nella storia degli Stati Uniti fuorché “il più debole” e, anche, il più autonomo. La Corte Suprema, in quanto tribunale d’appello ultimo e titolare del controllo di legittimità costituzionale,  raccoglie in sé funzioni rilevantissime. Le modalità di nomina dei suoi membri (9 dal 1868, anche se nei decenni precedenti oscillarono tra 5 e 10), indicati dal Presidente e approvati dal Senato, e la loro carica a vita ne accentuano tanto la forza quanto la natura intrinsecamente politica.

I membri della Corte Suprema degli Stati Uniti all’estate del 2022. Seduti, da sinistra a destra: Justices Samuel A. Alito, Jr. e Clarence Thomas, Chief Justice John G. Roberts, Jr., Justices Stephen G. Breyer e Sonia Sotomayor. In piedi, da sinistra a destra: Justices Brett M. Kavanaugh, Elena Kagan, Neil M. Gorsuch, e Amy Coney Barrett. (da supremecourt.gov)

 

A dispetto delle frequenti rivendicazioni sulla sua apoliticità, ultime in ordine di tempo quelle dell’attuale Chief Justice John Roberts, comunque di tendenza moderata-conservatrice, la Corte Suprema negli Stati Uniti è, ed è stata, attore decisivo rispetto alle scelte politiche, e di politiche pubbliche. Lo abbiamo visto bene con alcune delle decisioni che la Corte– con maggioranze invariabilmente “politiche” nella sua attuale configurazione di 6 (conservatori) a 3 (liberal) – ha preso prima della pausa estiva, in particolare riguardo all’aborto (Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization), le armi da fuoco (New York State Rifle & Pistol Association v. Bruen) e le competenze federali in materia di regolamentazione delle emissioni nocive (West Virginia v. Environmental Protection Agency).

 

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Che cosa ci dicono queste decisioni e come possiamo contestualizzarle? Come leggerle cioè in rapporto a un processo storico contraddistinto da questo attivo ruolo politico della Corte?

Per rispondere, e per meglio comprendere l’oggi, è necessario soffermarsi sulle modalità con cui l’azione politica della Corte Suprema si è manifestata nella storia e in quella più recente in particolare.

La più alta autorità giudiziaria del paese ha di volta in volta accompagnato l’azione della politica ovvero ne ha surrogato la debolezza e l’incapacità di dare codificazione legislativa a riforme in ultimo imposte per via giudiziaria. Quasi sempre, però, questa azione della Corte e la filosofia costituzionale che vi sottostava hanno riflesso lo spirito politico e culturale dei tempi. Dopo gli scontri su alcuni dei provvedimenti del New Deal, e il radicale progetto di Roosevelt nel 1937 di modificare la composizione della Corte aggiungendo giudici (fino a un massimo di 15) se quelli in carica non fossero andati in pensione al compimento dei 70 anni di età, la Corte Suprema fu infine trasformata dalle nomine rooseveltiane (8 in totale) e divenne un bastione liberal, in particolare nell’affermare il primato inequivoco del potere federale su quello statale in materia di regolamentazione dell’attività economica e, a partire dagli anni Cinquanta, sul tema nodale dei diritti civili e della desegregazione.

Con un Congresso paralizzato dal peso dei rappresentanti del Sud democratico e razzista, e con numerose organizzazioni (a partire dalla NAACP, National Association for the Advancement of Colored People) sempre più inclini a ricorrere alle corti federali e a usare lo strumento della constitutional litigation, fu il potere giudiziario a dare una spinta decisiva all’abbattimento della segregazione razziale, con decisioni – su tutte la Brown v. Board of Education of Topeka del 1954 che ne dichiarava l’incostituzionalità nelle scuole – destinate a rappresentare degli spartiacque epocali, politici e simbolici. Questo attivismo giudiziario si estese progressivamente ad altri ambiti, incluso un diritto penale amministrato fino ad allora principalmente a livello statale. E costituì in una certa misura architrave fondamentale dell’ordine, e finanche della coalizione, del New Deal.

La trasformazione politica e culturale che avviò la grande era socialmente conservatrice e politicamente neoliberale dell’ultimo mezzo secolo coinvolse, come era inevitabile che fosse, lo stesso potere giudiziario, che fu al tempo stesso oggetto e agente di questa trasformazione. La composizione della Corte Suprema, e i suoi equilibri ultimi, ne risultarono stravolti (dei 21 giudici entrati alla Corte Suprema dal 1968 a oggi, 16 sono stati nominati da amministrazioni repubblicane). E lo strumento della litigation costituzionale fu vieppiù utilizzato anche da una galassia di organizzazioni e lobby conservatrici, il cui crescente attivismo politico s’intrecciò con la consapevolezza che la via giudiziaria poteva costituire un canale più efficiente e rapido per ottenere i risultati desiderati.

Il tutto avvenne contestualmente all’affermarsi, a destra, di una filosofia costituzionale declinata in chiave “originalista” e/o testuale, formalmente antitetica all’attivismo giuridico dei decenni precedenti. Più ambigua (e, anche, “attivista”) di quanto non possa apparire, questa filosofia contesta le interpretazioni evoluzionistiche e gli adattamenti storici del testo costituzionale e invoca un approccio letterale all’ossuta (e anacronistica) Costituzione del 1787 ovvero chiede che essa venga applicata, caso per caso, sulla base di quella che sarebbe stata l’interpretazione che ne davano i suoi estensori quasi due secoli e mezzo fa.

 

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L’attivismo anti-attivista della Corte Suprema si è dispiegato in vari ambiti. Semplificando molto possiamo però trovare due fili conduttori, strettamente interdipendenti, nell’appoggio a processi di deregolamentazione delle attività economica che sono stati centrali nell’epoca neoliberale post-anni ‘70 e nel tentativo di ridefinire la balance of power federale a vantaggio del potere statale. Il tutto è però avvenuto in un contesto politico, sociale e culturale crescentemente polarizzato e, dopo il tornante 2008, nel quadro di una crisi dell’ordine neoliberale e del tentativo, avvenuto con Barack Obama, di procedere a processi di ri-regolamentazione giustificati sia dalla esplosione della bolla speculativa, finanziaria e immobiliare, sia dalla nuova emergenza ambientale.

Le conseguenze sono quelle a cui abbiamo assistito negli ultimi dieci-quindici anni. La paralisi legislativa, l’uso (ed abuso) degli ordini esecutivi e una forma di governo sempre più burocratico-amministrativa hanno ancor più accentuato l’importanza, e il ruolo politico, delle corti, quella Suprema su tutte. È al potere giudiziario che gruppi d’interesse e alcuni Stati si sono rivolte per contestare le iniziative di un Esecutivo la cui debolezza andava di passo con l’invocazione di crescenti privilegi e l’adozione d’iniziative unilaterali. E sono le Corti che, come spesso in passato, con le loro decisioni surrogano l’inefficienza di una politica polarizzata e paralizzata.

Gli effetti e i corto-circuiti sono plurimi. Togliendo un comune denominatore minimo federale, come è stato il caso con Dobbs e l’aborto, le decisioni della Corte demandano molteplici questioni a legislazioni statali che si fanno ancor più divergenti e conflittuali: concorrono cioè ad alimentare una polarità nelle politiche pubbliche che mette sotto tensione il tessuto federale e inasprisce polarizzazione e contrapposizione. La deregulation spesso avallata dalle corti contribuisce ad alimentare meccanismi corruttivi della vita pubblica e politica, impedendo ad esempio una seria regolamentazione dei finanziamenti privati nelle campagne elettorali (è questo il caso della famosa sentenza della Corte Suprema del 2010, Citizens United v. Federal Election Commission).

Al contempo, essa danneggia la capacità del governo federale di promuovere iniziative propedeutiche, peraltro, a un’azione globale impensabile senza la partecipazione e la leadership degli Stati Uniti (la limitazione delle emissioni nocive è, da questo punto di vista, un caso paradigmatico). Più di tutto, in epoca di polarizzazione e delegittimazione dell’avversario politico, un potere giudiziario così marcatamente politicizzato finisce esso stesso per perdere quella legittimità minima di cui abbisogna per svolgere il suo ruolo e per rendere in ultimo accettabili, o quantomeno tollerabili, le sue tante decisioni “politiche”.

 

 

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