USA e Iran: uno scenario che vada oltre gli schemi attuali

La situazione politico-strategica del Medio Oriente sta costando moltissime vite palestinesi, oltre a quelle israeliane dell’attacco terroristico di Hamas, ed è molto pericolosa anche in senso più ampio: lo vediamo dal Mar Rosso all’Iraq alla Siria, con il possibile coinvolgimento diretto dell’Iran in operazioni militari. Gli Stati Uniti stanno usando una combinazione di strumenti diplomatici (finora con scarso successo) e militari per contenere i conflitti in corso e prevenire un loro ulteriore allargamento. Il Presidente Biden ha in effetti di fronte un dilemma, poiché fare troppo o troppo poco contro i famigerati “proxy” iraniani può essere comunque un errore dalle conseguenze gravi – sia per la posizione americana nel mondo sia per la campagna elettorale verso il voto del prossimo novembre.

Fumo da Gaza durante un bombardamento israeliano

 

In questo momento delicatissimo, si può tuttavia tentare di superare gli schemi consolidati e guardare oltre l’orizzonte immediato, con la speranza perfino di trovare una via di uscita dal dilemma. Per farlo, serve partire dal pregresso.

Barack Obama (con Joe Biden come Vicepresidente) aveva fatto una scelta quasi rivoluzionaria rispetto alla tradizione della politica estera americana, aprendo una linea di credito politico all’Iran con l’accordo sul nucleare del 2015. Donald Trump ha fatto dal 2016 una scelta “restauratrice” (con gli “Accordi di Abramo”) e solo in apparenza lungimirante, visto che israeliani e sauditi non erano prima di allora nemici giurati ma semmai controparti problematiche impegnate in una danza diplomatica che non ha mai posto al centro il popolo palestinese. Il problema per Joe Biden è che sembra non aver scelto affatto, lasciandosi guidare dagli eventi fino agli sviluppi tragici del 7 ottobre 2023. Il fatto che quell’accordo del 2015 fosse problematico e di difficile attuazione è noto fin dall’inizio, ma ciò non toglie che esso ha avuto pochissimo tempo per produrre i suoi frutti, e il suo potenziale non è stato realmente testato.

Va anche ricordato che l’approccio tentato da Obama includeva, di fatto se non in modo esplicito, un certo allentamento dei rapporti di alleanza con l’Arabia Saudita e perfino con Israele. Non a caso entrambi si erano dichiarati apertamente contrari al Joint Comprehensive Plan of Action, firmato a Vienna dai cinque membri Permanenti del Consiglio di Sicurezza ONU (tecnicamente dal “P5+1” vista l’aggiunta della Germania), dall’Unione Europea, e dall’Iran. La svolta impressa da Trump ha praticamente rovesciato quello schema, puntando tutto sull’avvicinamento tra Tel Aviv e Riyad proprio allo scopo di isolare Teheran; nel tentare questa strada, però, si è data carta bianca al governo Netanyahu nella gestione della questione palestinese, con tanto di riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico.

Non deve quindi sorprendere che le dinamiche regionali ereditate dall’amministrazione Biden creino una percezione di accerchiamento nella leadership iraniana (che è al contempo ossessionata dalla sicurezza e aggressiva nel perseguire le proprie ambizioni internazionali). Intanto, il paradosso è che sauditi e iraniani hanno aperto da tempo un canale di dialogo bilaterale, aggirando in sostanza la volontà americana di innalzare il muro strategico di contenimento attorno alla Repubblica Islamica.

Se questo è il quadro di fondo, la decisione presa da Biden di usare la forza contro alcune delle milizie alleate di Teheran (in Siria, Iraq, e Yemen) ha alzato la posta, ma va collocata nel giusto contesto per valutarne meglio le possibili conseguenze. Molti osservatori hanno sottolineato che la risposta militare (missilistica, finora) americana contro gli Houthi yemeniti non fermerà gli attacchi alle navi mercantili nel Mar Rosso, e quella contro le milizie filo-iraniane in Iraq e Siria non ridurrà i pericoli per le truppe americane in Medio Oriente, mentre consente comunque al governo iraniano di dichiararsi non responsabile dell’accaduto.

Tutte queste osservazioni sono plausibili, ma forse il punto è un altro: Washington intendeva proprio colpire i proxy senza innescare uno scontro diretto con l’Iran (e per questo potrebbe aver atteso qualche giorno dopo l’annuncio dei raid, facilitando l’evacuazione del personale iraniano eventualmente sul terreno). E l’intenzione sembra chiara: l’amministrazione Biden spera ancora di limitare la conflittualità regionale. Il che fa sorgere un’ulteriore quesito: sarebbe perfino possibile riavviare con Teheran una qualche forma di dialogo – magari indiretta, in vista di una specie di accordo di desistenza?

Proviamo allora a spingere un passo avanti questa linea di ragionamento, adottando (certo, con cautela) un’analogia storica diversa da quella del “momento Carter” in cui sembra trovarsi oggi Biden: invece di spingerli sull’orlo di un’umiliazione inflitta dall’Iran, gli USA possono puntare a un “momento Kissinger” e “Nixon a Pechino” (febbraio 1972), cioè a un mutamento di alleanze che sembrano consolidate per aprire una fase di collaborazione parziale e pragmatica con un avversario. L’analogia sta nel fatto che il duo Nixon-Kissinger nel 1970-71 riuscì a sganciare Pechino dall’alleato (proxy) nordvietnamita per potersi divincolare dall’impegno militare diretto in Vietnam (1973). Mesi di negoziati segreti e ad altissimo livello esplorarono con pazienza i possibili punti di contatto, per quanto limitati. Ne scaturirono importanti vantaggi relativi sia per gli Stati Uniti che per la Cina rispetto all’allora URSS. Con tutte le differenze del caso, vale la pena di tenere conto di questa analogia e provare ad applicarne qualche lezione.

Ammesso e non concesso, dunque, che il vertice del governo iraniano abbia oggi un controllo quasi totale e diretto delle varie milizie (il che davvero non sembra realistico, soprattutto per quanto riguarda Hamas a Gaza e probabilmente anche Hezbollah in Libano), rimane il fatto che potrebbe essere disposto a sacrificarle, a certe condizioni. O quantomeno a ridurre il proprio grado di sostegno tangibile. Si può cioè immaginare che ci sia un prezzo ragionevole per convincere Teheran a non svolgere soltanto un ruolo di guastatore regionale, ad esempio in termini di concessioni economiche con la revoca temporanea di alcune sanzioni internazionali. In fondo, è esattamente la via che si provò ad imboccare nel 2015, quando una pur limitata collaborazione iraniana sul programma nucleare militare si sarebbe potuta “premiare” con una contropartita finanziaria o commerciale.

Con un po’ di creatività diplomatica, si può andare anche oltre nel disegnare uno scenario positivo: dopo aver lanciato messaggi obliqui e ambigui attraverso le modalità stesse di esercizio della forza militare, Washington potrebbe comunicare al governo iraniano che intende precisamente punire e dissuadere i proxy, a difesa della presenza americana nella regione e della libertà di navigazione, aggiungendo però che ridurre il raggio d’azione di questi attori locali è anche nell’interesse dello stesso Iran. Anzi, che se Teheran cooperasse a perseguire tale obiettivo, si aprirebbe lo spazio per un nuovo assetto mediorientale, meno sbilanciato a favore delle monarchie (arabe e sunnite) del Golfo e potenzialmente vantaggioso per un Paese (non arabo e sciita) come l’Iran – e, si può aggiungere in un’ottica più ampia, forse per una media potenza (non araba e sunnita, di tradizione laica) come la Turchia che è pur sempre un membro della NATO.

Per fornire qualche altro incentivo tangibile a Teheran nel prendere in considerazione lo scenario, si potrebbe anche far notare che si stanno ormai delineando rotte alternative alla “Via della seta” cinese, con il decisivo coinvolgimento dell’India come cardine asiatico.

 

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L’Iran ne resterà senza dubbio escluso nelle condizioni attuali, nonostante una posizione geografica potenzialmente vantaggiosa. E dovrà affidarsi come partner commerciali essenzialmente a Russia (non certo un’economica dalle brillanti prospettive) e Cina (col suo modello di crescita pieno di punti interrogativi), condannandosi in pratica a mantenere al massimo i recenti ritmi di sviluppo molto bassi.

L’Iran nello scenario mediorientale (1967)

 

Ora, è evidente a tutti che il contesto politico-ideologico della leadership iraniana non fa ben sperare rispetto a un percorso negoziale di tipo pragmatico, che nella migliore delle ipotesi è in salita e incontrerà comunque ostacoli seri. E’ anche vero, però, che il Partito Comunista Cinese dei primi anni Settanta non sembrava un candidato ideale per una fase di distensione con gli USA, e che le dinamiche interne alla Repubblica Islamica sono ben più interessanti e a volte turbolente, come abbiamo visto a più riprese nella sua storia e in particolare nelle massicce proteste del 2022-23. Impossibile dire per certo se e quanto gli sviluppi dell’accordo nucleare del 2015 (molto popolare nel Paese) avrebbero potuto anche innescare dei graduali mutamenti negli equilibri politici. In ogni caso, è sempre con gli avversari che si deve negoziare, più che con gli alleati e gli amici.

Anche in termini di dibattito tra gli analisti di politica internazionale e questioni strategiche, si dovrebbe evitare un’eccessiva polarizzazione che poi diventa una poco utile iper-semplificazione: non ci sono soltanto due opzioni in Medio Oriente, tra guerra all’Iran o cedimento nei confronti degli ayatollah. Pur identificando in Teheran un fulcro dell’instabilità regionale, non è detto che si tratti dell’unico fulcro; e pur ritenendo che il nodo iraniano sia centrale, non è detto quel nodo vada tagliato con la forza militare – visto che i nodi a volte si possono sciogliere.

Dalla prospettiva di Biden, esiste certamente una sfida imminente rispetto all’Iran, e in una prospettiva europea ci sono molte ragioni di preoccupazione. Eppure, conviene guardare oltre gli schemi del momento. Prima di Jimmy Carter c’era stato Richard Nixon, e dopo di loro ci furono Ronald Reagan e George H.W. Bush che addirittura contribuirono ad abbattere pacificamente un famoso muro a Berlino. Sembrava davvero impossibile.

 

 

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