Pesano le difficoltà interne di entrambi. Joe Biden, in un anno elettorale, ha indici di gradimento così bassi da ricordare Jimmy Carter, presidente per un solo mandato. L’economia degli States non va affatto male; ma i sondaggi indicano che la maggioranza degli americani pensa di stare molto peggio di quattro anni fa. Non è certo una buona premessa per vincere la sfida elettorale, per un Presidente alle prese con la polarizzazione del Congresso e con il peso negativo del fattore età. Biden ripone la sua maggiore speranza nella candidatura di Trump, convinto di poterlo battere ancora. Sono entrambe – fattore Trump e “rematch” a favore di Biden – due scommesse da dimostrare. E non chiaro se e quanto aiuterà il dialogo con la Cina, vista come potenziale minaccia (di sicurezza, economica) da gran parte dell’opinione pubblica americana.
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Xi Jinping, teorico del “grande Rinascimento” del popolo cinese, si trova invece alle prese con il primo vero stop della turbo-crescita economica da quattro decenni a questa parte. Se Deng Xiaoping aveva innescato, proprio con il suo famoso viaggio negli Stati Uniti del 1979, una fase di straordinaria ascesa economica della Cina, Xi Jinping rischia di passare alla storia come il protagonista della fine del miracolo cinese. Non a caso, ha chiesto ai principali imprenditori americani di continuare a investire nel suo Paese, dopo avere parlato per anni dell’ineluttabile declino degli Stati Uniti.
Il nazionalismo di Xi è una rischiosa compensazione delle difficoltà economiche interne. Con le loro conseguenze politiche. La legittimità al potere della dinastia comunista si fonda sul noto scambio: libertà economica senza libertà politica. Con una crescita in rallentamento (anche se ancora sopra al 3%), lo scambio funzionerà sempre meno.
La Cina è insomma più debole di quanto in genere si pensi, ha più bisogno dell’America che non viceversa. Gli Stati Uniti sono relativamente più forti di quanto in genere si dica, hanno ancora una posizione dominante sul piano militare e possono per ora contare sulla centralità del dollaro. Ma è evidente che la Pax Americana si sta esaurendo, il vecchio ordine internazionale è ormai inefficiente e contestato: non solo dai rivali autoritari ma da una serie di “potenze di mezzo” che sono alla ricerca di un ruolo regionale, dalla Turchia all’Arabia Saudita, dal Sud Africa al Brasile. Washington si trova esposta su troppi fronti – Ucraina e Medio Oriente – mentre il Paese è di nuovo assorbito da una tentazione isolazionista e mentre il fronte primario, nelle valutazioni strategiche americane, è quello Indo-Pacifico. Riprendere il dialogo con la Cina è – molto semplicemente – “comprare del tempo”, evitando danni eccessivi.
Viviamo una fase particolarmente rischiosa della vita internazionale: un “interregno” (nella definizione della rivista “Le Grand Continent”), tipico delle transizioni da un vecchio ordine in crisi ad uno nuovo che ancora non si vede. E la storia ci dice che gli interregni, caratterizzati dalla lotta fra la potenza dominante e i suoi sfidanti, sono stati quasi sempre violenti. La tentazione è di vedere sia nell’aggressione russa dell’Ucraina che nel conflitto fra Israele ed Hamas, i pezzi di una nuova guerra mondiale. In realtà, si tratta di pezzi di guerre molto diverse fra loro e largamente ereditate dal passato. L’ innesco di un conflitto globale sarà semmai sul fronte del Pacifico, ragione principale per cui è giusto salutare, senza troppe illusioni, il vertice di San Francisco fra Xi e Biden.
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Non è affatto detto, peraltro, che nell’epoca attuale la transizione del potere internazionale assuma le stesse forme del passato (l’ascesa della Germania guglielmina e la fine della Pax Britannica ad esempio). E’ più probabile che la competizione fra USA e Cina si giochi tutta sul vantaggio tecnologico e sulla ristrutturazione delle catene globali del valore. Sono le armi economiche dei conflitti contemporanei, che portano a un contagio fra sicurezza nazionale e mercati, con un ritorno in grande stile delle politiche industriali e una frammentazione parziale della vecchia globalizzazione.
L’Europa non può concepirsi, in un contesto del genere, quale un’altra potenza di mezzo, con una collocazione ambigua. Come ha dimostrato la guerra in Ucraina, l’UE continua a dipendere dalla NATO, ossia dagli Stati Uniti, per la sua sicurezza; come ha confermato il conflitto fra Israele ed Hamas, continua a dividersi sulle sfide mediterranee, nel cortile di casa. Sono ragioni sufficienti per sapere che l’Europa non può che essere atlantica. Ma questo non basta, evidentemente.
L’Europa deve anche darsi le idee e gli strumenti per esercitare un’influenza: cosa utile a sé stessa e alla relazione con un’America che potrebbe scegliere altrimenti una via solitaria. La prima condizione per contare qualcosa è che l’Europa recuperi competitività: ne ha persa moltissima negli ultimi due decenni, e rischia di perderne ancora per i prezzi dell’energia, i divari tecnologici, la mancanza di investimenti sufficienti. La seconda è di trovare un accordo con Washington (cosa non affatto automatica) su termini e modi in cui gestire la Cina: quali sono i confini del cosiddetto “de-risking”? E come limitare, senza costi eccessivi, la “sovra-dipendenza” da Pechino per ciò che riguarda tecnologie e materiali critici per la transizione energetica?
Nell’età dell’interregno, l’Europa dovrà compiere un salto di qualità nelle politiche industriali e concentrarsi sulla competitività; o finirà in una posizione marginale, quale pallido spettatore di una competizione globale che è destinata ad influenzarla profondamente ma a cui sarà sempre meno in grado di partecipare.
*Una versione di questo articolo è apparsa su Repubblica del 17/11/2023