Un’Apocalisse di nome Trump

L’ascesa politica di Donald Trump, culminata nell’elezione alla presidenza degli Stati Uniti nel novembre 2016, ha avviato una vera e propria rivoluzione all’interno del Partito Repubblicano. Ricordiamo che, nel 2015, il dibattito interno al partito dell’elefantino era principalmente concentrato sulla possibilità di allargare una base elettorale che, almeno sul fronte delle elezioni presidenziali, si era mostrata sempre più ristretta, determinando così le sconfitte di John McCain nel 2008 e di Mitt Romney nel 2012. Il problema affondava del resto le proprie radici nella progressiva crisi della globalizzazione, esemplificata dalla guerra in Iraq e dalla Grande Recessione: due eventi che avevano reso impopolare la politica estera proattiva di marca neoconservatrice e – al contempo – mostrato i limiti dell’impianto economico reaganiano.

Fu proprio in questo clima che Trump riuscì ad inserirsi, rifiutando alcuni “dogmi” del passato e aprendo il partito – almeno in parte – a frange elettorali nuove. Se in politica estera l’allora candidato repubblicano promise di mettere un freno alle cosiddette “guerre senza fine”, in politica economica ha innestato alcuni elementi di novità, a partire dal protezionismo commerciale. Tutto questo, senza comunque rinunciare a determinati ancoraggi al conservatorismo tradizionale: si pensi alla lotta contro l’aborto o alla nomina di giudici conservatori alla Corte Suprema e alle corti federali inferiori.

In un tale quadro, si comprende l’eterogeneità della coalizione elettorale che portò alla fine Trump alla Casa Bianca: una coalizione che andava dagli evangelici (storicamente repubblicani) ai colletti blu della Rust Belt (tradizionalmente democratici), passando per un voto trasversale come quello dei cattolici. Senza infine dimenticare un (seppur lieve) incremento nel sostegno da parte delle minoranze etniche, rispetto a Romney nel 2012.

L’elettorato evangelico, tra i più compatti in favore di Trump

 

Del resto, non va trascurato come i due grandi partiti americani siano periodicamente soggetti a drastiche rivoluzioni interne: rivoluzioni che interessano sia il piano ideologico sia quello delle classi dirigenti. Con la sua ascesa nel 1980, Ronald Reagan defenestrò per esempio buona parte dell’establishment nixoniano (a partire dall’eminenza grigia Henry Kissinger e del Presidente Gerald Ford – che di Nixon era stato il vice per subentrargli dopo il Watergate). Spostò così il partito su posizioni di interventismo internazionale e vigoroso liberoscambismo. Fu questo il punto d’inizio di quella che, ancora oggi, gran parte del mondo conservatore americano chiama la Reagan Revolution. Certo: la “rivoluzione trumpiana” è ancora in corso e ha incontrato numerosi ostacoli sia durante la scorsa campagna elettorale che in questi quattro anni di governo; si pensi solo all’ostilità manifestata dalle galassie gravitanti attorno alla famiglia Bush.

Eppure, in termini di fronda repubblicana, qualcosa è cambiato con il tempo. Lo spartiacque è probabilmente rappresentato dalle elezioni di metà mandato del 2018: molti degli avversari interni del presidente speravano infatti in una débâcle del partito, da usare come pretesto per contendere a Trump la nomination repubblicana di quest’anno. Il sostanziale pareggio che si verificò in quella tornata elettorale, accompagnato dai buoni risultati sul piano economico, ha nei fatti disinnescato la carica dell’opposizione interna che, dalla fine del 2018, ha siglato una sorta di tregua con l’ala trumpista del partito.

E’ pur vero che svariate figure repubblicane continuano ad esprimersi ancora oggi contro Trump (pensiamo solo all’ex governatore dell’Ohio, John Kasich, o all’ex segretario di Stato, Colin Powell, che addirittura ha annunciato che voterà per Joe Biden). Tuttavia, se all’inizio l’area dei cosiddetti Never Trumpers poteva godere ancora di un discreto seguito elettorale, oggi quella spinta sembra essersi in gran parte esaurita ed è francamente improbabile che figure come Kasich, Powell o l’ex senatore dell’Arizona Jeff Flake, saranno in grado di spostare consensi in modo significativo.

Nell’ultimo anno e mezzo, l’elefantino – anche in vista delle prossime presidenziali – ha mostrato un discreto grado di compattezza. E alcune figure un tempo non poco distanti dal Presidente si sono pian piano avvicinate a lui. Pensiamo ai Senatori Ted Cruz, Marco Rubio e Lindsey Graham o all’ex ambasciatrice americana all’Onu, Nikki Haley: tutti fieri avversari dell’attuale Presidente ai tempi delle primarie del 2016. Ed è proprio il discorso, pronunciato dalla Haley durante l’ultima Republican National Convention, che esemplifica forse al meglio questa tregua tra le varie anime del partito.

Nikki Haley alla Convention Repubblicana

 

Va da sé che il futuro degli equilibri interni passerà dai risultati elettorali del prossimo 3 novembre. In caso Trump fosse sconfitto, è chiaro che salterà tutto e si innescherà una micidiale resa dei conti, dagli esiti imprevedibili. Qualora il Presidente dovesse essere riconfermato, è invece plausibile possa verificarsi un’ulteriore integrazione tra la corrente tradizionale e quella populista.

Un’integrazione le cui prove generali sono avvenute proprio nel corso dell’ultima Convention, dove – a fianco delle rivendicazioni dell’eccezionalismo americano, formulate dalla Haley e dal Vicepresidente Mike Pence – Trump ha cercato di presentare l’elefantino sempre più come una compagine vicina alle classi lavoratrici (con particolare attenzione agli agricoltori dell’Iowa, ai piccoli imprenditori del Wisconsin e ai pescatori del Maine), additando al contempo l’asinello, cioè i Democratici, come il partito dei privilegiati.

Se l’attuale Presidente ha avuto il merito di allargare la base del partito, sul suo operato pesano tuttavia due significative incognite. In primis, l’inquilino della Casa Bianca non sembra aver ancora granché pensato a gettare le basi “dottrinali” della propria svolta: a differenza di quanto accadde ai tempi della rivoluzione reaganiana, l’aspetto ideologico non è stato molto considerato in questi quattro anni e ciò potrebbe finire col danneggiare la legacy del Presidente. In secondo luogo, la centralità che Trump sta attribuendo ad alcuni suoi parenti in seno alle dinamiche del partito – centralità testimoniata soprattutto dall’ultima Convention – potrebbe creare delle frizioni interne, senza considerare i rischi strategici (soprattutto oggi, con le principali dinastie politiche americane che – dai Kennedy ai Bush, passando per i Clinton – sono sempre più in crisi di popolarità).

L’orizzonte politico del partito verso il 2024 dunque non è affatto privo di incognite. I principali nomi che starebbero scaldando i motori (Nikki Haley, Mike Pence, Mike Pompeo e Tom Cotton) appartengono (tendenzialmente) alla corrente più tradizionale del partito. Una corrente che apprezza magari la linea securitaria dell’attuale Presidente in materia di ordine pubblico o l’impegno sui temi etici, ma che difficilmente seguirà le sue orme in politica estera e sul commercio internazionale. Un elemento, questo, che potrebbe risultare problematico in aree come la Rust Belt.

Al momento, secondo quanto riferito a luglio da Politico, l’unica figura teoricamente in grado di raccogliere l’eredità più populista del trumpismo potrebbe essere il giornalista di Fox News, Tucker Carlson, che – soprattutto sul fronte della strategia internazionale – mostra da sempre una profonda affinità con l’attuale Presidente. Il futuro del Partito Repubblicano passa dalla necessità di trovare qualcuno che sappia federare queste anime differenti. Perché Trump, che vinca o perda a novembre, non è destinato a risolversi in una mera parentesi.

 

 

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