In questi giorni virologi e medici stanno spiegando come affrontare l’epidemia di coronavirus COVID-19 attraverso misure di contenimento e di igiene personale. Molte figure di governo ci dicono che servono misure eccezionali perché siamo ‘in guerra’. Nel frattempo, gli economisti e i responsabili politici stanno già immaginando come si riassesteranno gli equilibri geopolitici e come rilanceremo l’economia e la finanza.
Tutti questi discorsi sono preziosi e necessari in un simile momento di crisi ma rischiano di non toccare un’importante radice del problema: l’interconnessione di ogni sistema umano, e come gestirla.
La prospettiva antropologica può venire in aiuto. L’antropologia è una disciplina che io considero come un’analisi comparativa circa il posto e il ruolo degli esseri umani nel mondo. Ciò si attua andando a analizzare come diverse ‘culture’ danno significato e intervengono in ciò che succede attorno a loro. Un settore molto specifico in tale contesto disciplinare è quello della salute e della malattia. Negli ultimi anni, ho analizzato la ‘cultura’ degli scienziati che studiano i microbi.
Questa ricerca mi ha portato in alcuni laboratori di eccellenza, dal Nord Italia alla California. E’ infatti solo da poco più di una decina di anni che la scienza – grazie a big data e intelligenza artificiale (IA) – è riuscita produrre evidenza scientifica circa l’enorme biodiversità e quantità di microbi che vivono assieme, dentro e attorno a noi. I virus fanno parte di questo mondo microbico, anche se in modo peculiare perché necessitano di una cellula per vivere e riprodursi. Si è visto che i microbi sono parte della nostra stessa identità come esseri umani: circa metà delle cellule di un corpo umano sono microbiche e la composizione e l’attività dei microbi sono aspetti centrali per lo svolgimento di processi che coinvolgono la salute come il metabolismo, la regolazione del peso, l’attività del sistema immunitario, le reazioni allergiche, le reazioni allo stress e il successo delle terapie, influenzando persino l’umore e la personalità. Aspetti come la dieta, la modalità di nascita e l’utilizzo di antibiotici danno forma e cambiano i nostri microbi, allo stesso modo in cui i microbi contribuiscono a configurare chi siamo noi e la nostra salute.
Le conoscenze sviluppate grazie a big data e IA riposizionano anche il posto dell’umano nel mondo, provocando tra gli scienziati che se ne occupano un vero e proprio shock culturale[1]: ormai sappiamo che ci sono più microbi in un cucchiaino da caffè che stelle nella Via Lattea e il mondo microbico può essere paragonato a miliardi di universi, ognuno dei quali composto da migliaia o milioni di galassie. I microbi sono tra gli organismi più adattabili e si riproducono a velocità altissime. Per questo motivo, i ricercatori stanno pensando di colonizzare altri pianeti partendo da forme di vita microbica e probabilmente la prima forma di vita aliena che verrà scoperta sarà microbica. Persino le origini della vita sulla Terra si devono ai microbi – gli unici suoi abitanti fino ad un tempo relativamente recente se considerato in un’ottica geologica. Ne consegue che i loro processi fisiologici sono molto importanti; noi, per esempio, non sopravvivremmo senza le condizioni ambientali da essi garantite. Ciò portò il biologo Stephen Jay Gould ad affermare che la Terra sia sempre stata – e sempre lo sarà – nella “Age of Bacteria”.
La domanda quindi è: siamo sicuri che possiamo entrare in ‘guerra’ con un ‘nemico’ così? Al momento questa sembra essere l’unica opzione sul tavolo dei decisori e dell’opinione pubblica. Le strategie che per ora abbiamo sono l’identificazione dei casi, il distanziamento sociale e la disinfezione. Sono strategie che cercano di identificare il nemico (tamponi) per aggirarlo e non permettergli di riprodursi (distanziamento) o di ucciderlo (disinfezione). Essere in stato di guerra significa anche canalizzare le risorse verso le necessità primarie di cura dei malati, oltre che limitare le libertà personali. Queste manovre sono essenziali; quelli che affermano, come ha fatto il filosofo Giorgio Agamben all’inizio dell’epidemia in Italia, che ciò sia un pretesto per instaurare e poi ampliare oltre ogni limite un governo simil-dittatoriale, probabilmente non hanno ben colto la natura della situazione.
Ma per aumentare le chance di vincere una guerra – soprattutto a lungo termine – bisogna conoscere e studiare bene il proprio nemico. Conoscerlo non significa semplicemente identificarlo a livello genetico. Questo è un passo decisivo sia per l’identificazione dei contagiati attraverso i tamponi che per lo sviluppo di una possibile cura vaccinale. Le recenti scoperte sui microbi ci dicono, però, che è imprescindibile anche uno spostamento di prospettiva da quella antropocentrica – in cui solo l’essere umano è misura e fine di tutto – a una ecosistemica in cui l’umano è un attore importante ma non l’unico.
Il concetto fondamentale – che richiede una prospettiva interdisciplinare – è che l’essere umano è un ecosistema e la sua salute è il prodotto delle dinamiche che si instaurano a livello ecosistemico. La salute non è la proprietà di un corpo ma emerge dalle relazioni (socio-politiche, economiche e ambientali) di un ecosistema; è una salute “circolare”, come l’ha definita la virologa Ilaria Capua[2]. Nel mondo microbico, queste relazioni – nella maggior parte dei casi – sono processi simbiotici in cui l’esistenza di una comunità facilita quella di un’altra e ciò previene lo sviluppo di patogeni. Questo meccanismo è anche chiamato ‘antagonismo microbico’ e permette di evitare lo scontro frontale (modalità agonistica).
Le epidemie fanno parte della storia dell’uomo, non sono certo una novità. Le epidemie del mondo moderno – dalla spagnola, all’Ebola, l’HIV all’aviaria – sono tutte zoonosi, ovvero malattie provocate da un virus che normalmente coabita con animali e poi, per una qualche ragione, transita agli esseri umani. Queste malattie si chiamano ‘malattie infettive emergenti’ e molti scienziati ipotizzano che saranno sempre più frequenti perché sono anche legate alla devastazione violenta e veloce di ecosistemi causata dalla pressione esercitata dalla nostra specie. Lo sfruttamento senza limiti delle materie prime e degli ecosistemi è acuito da una “globalizzazione senza freni” che ha “prodotto e portato i suoi frutti avvelenati” – come espresso da Giulio Tremonti tra le riflessioni di Aspenia online sulla pandemia.
La straordinaria capacità scientifica e tecnologica che ci ha permesso di intervenire e modificare gli ecosistemi fornisce però anche le chiavi di accesso al loro funzionamento, incoraggiandoci a ripensare cosa, come possano essere la finanza, l’economia, la società, la politica, l’ambiente e la salute alla luce del concetto di interdipendenza. Se vogliamo vincere la guerra contro le epidemie, quindi, serve un salto di prospettiva (come già stiamo facendo, per esempio, dall’ ‘io’ al ‘noi’ nell’osservanza della quarantena) per impostare una strategia che ci permetta di vincere adesso, ma anche a lungo termine.
E’ un compito enorme suggerire come questa strategia bellica si può tradurre nell’economia, nella politica o nel campo militare. Nell’ottica di un’innovazione capace di fare dialogare diverse prospettive disciplinari, però, posso condividere quello che ho imparato da scienziati e microbi: che se si creano le condizioni, il nemico può anche essere un alleato e che le guerre si possono combattere in molti modi diversi. Ciò è cosa ben nota tra gli esperti di strategie militari ma, alla luce delle peculiarità di questa guerra, penso sia bene ricordarlo o, perlomeno, non dimenticarlo non appena avremo la prima vittoria.
Note:
[1] McFall-Ngai M., 2008, “Are biologists in ‘future shock’? Symbiosis integrates biology across domains.” Nature Reviews Microbiology, 6:789–792.
[2] Capua I., 2019, Salute circolare. Una rivoluzione necessaria, Milano, Egea.