Una fotografia elettorale dell’America di Joe Biden

“Gli americani si sono rivolti a noi per raccogliere e guidare le forze della moralità, le forze dell’equità e le forze della scienza”, ha detto Joe Biden nel suo primo discorso alla nazione da “President-elect”, aggiungendo rivolto ai sostenitori di Trump: “vi capisco; io stesso ho perso le elezioni a volte. Ma diamoci un’altra possibilità, mettiamo da parte la retorica ruvida, abbassiamo la temperatura, torniamo a vederci e a parlarci”. In poche parole il futuro presidente ha colto il succo degli orientamenti dell’opinione pubblica così come emersi dalle elezioni. Chi ha votato Biden e perché, chi ha votato Trump e perché, sono elementi fondamentali per capire in che modo l’America è divisa – sono divisioni che dicono molto anche a noi europei, dall’altra parte dell’Atlantico – cosa si aspetta dal futuro e in che modo, dunque, intende evolvere e cambiare.

 

Il ribaltone operaio

Cominciamo dal dato più cruciale, quello che ha deciso la partita: Biden è stato capace di vincere negli Stati del Nord-Est, la regione che era stata il cuore dell’industrializzazione americana e poi il simbolo della de-industrializzazione portata dalle nuove forme di lavoro e dalla delocalizzazione delle fabbriche, dove l’orgoglio operaio e sindacale aveva lasciato il posto a sacche di povertà impressionanti e ai quartieri fantasma, da dove quelli che erano i capitalisti più importanti del mondo da tempo erano scappati via insieme ai loro capitali. La Rust Belt, la “cintura della ruggine”, nel 2016 aveva votato Trump, con l’apporto decisivo di Pennsylvania, Michigan e Wisconsin (più Ohio e Iowa, che quattro anni prima avevano votato Obama). Stavolta, Pennsylvania, Michigan e Wisconsin hanno votato Biden. Anche se il candidato Dem non conquistasse l’Arizona e la Georgia – come invece sembra quasi certo, e sarebbero due risultati molto importanti – il voto di questi tre Stati, da soli, basterebbe a dichiarare “missione compiuta” alla candidatura di Biden.

I tre stati della Rust Belt che hanno ricostruito il “muro blu” democratico nel Nord Est degli Stati Uniti

 

Non si è trattato di vittorie larghe, ma nemmeno striminzite. Nel 2016, la differenza cumulativa in questi tre Stati tra Trump e Hillary Clinton era stata di 78.000 voti a favore del primo. Nel 2020, i voti per Biden sono stati 210.000 in più di quelli per Trump (una cifra che potrebbe ancora aumentare, lo spoglio non è completo). Notiamo qui per inciso che dire che uno Stato “ha votato Trump, o Biden” è un’astrazione, dato che i tre Stati in questione totalizzano oltre 25 milioni di abitanti, e sia stavolta che nel 2016 è una spaccatura ideologica, non una tendenza netta, quella che emerge. La ragione di fondo è la logica uninominale del sistema elettorale: “the winner takes all” significa appunto che uno scarto di un solo voto può fare la differenza tra vincere o perdere l’intero Stato, tranne che nei due piccoli casi di Maine e Nebraska, che adottano il proporzionale.

Gli exit poll condotti in Pennsylvania ci permettono già di dare un volto ai votanti dei due schieramenti nella Rust Belt. Trump conserva il suo vantaggio nella fascia di età tra i 40 e i 65 anni (56% dei voti) e tra i bianchi senza diploma universitario (69%), due dati che quattro anni fa avevano spinto alcuni a dire che gli operai avevano votato il candidato repubblicano. Nelle altre categorie di età, la preferenza per Biden va da leggera (52 a 49) tra gli over 65 a netta (59 a 35) tra gli under 30.

Trump presidente operaio allora? In realtà, stavolta come nel 2016, Trump viene votato soprattutto tra i bianchi senza diploma ma a reddito medio-alto, diciamo da chi appartiene a professioni indipendenti e dai lavoratori autonomi. Chi vive in famiglie che guadagnano meno di 50.000 dollari l’anno ha votato Biden, e ancor più chi vive sotto il tetto dei 30.000 dollari. Nella Rust Belt dunque il voto delle fasce popolari è andato convintamente al candidato Democratico, e qui si trova una prima fondamentale differenza con il 2016 quando quegli elettori pur non avendo scelto Trump spesso non erano andati a votare.

Reddito e voto in Pennsylvania. In azzurro, il voto per Biden, in rosso Trump. Fonte

 

Abbastanza schiacciante, poi, la preferenza per Biden tra gli afroamericani: il 92% lo ha scelto, anche se si ravvisa una certa divergenza tra il comportamento dell’elettorato femminile e quello maschile, propenso a votare Trump a tassi doppi rispetto alle donne, anche tra le minoranze. D’altronde, mentre la preferenza delle donne bianche è equilibrata tra i due candidati, gli uomini bianchi sono al 60% con Trump.

 

La disfida di suburbia

Suburban women, will you please like me?” – aveva chiesto Donald Trump in uno dei suoi ultimi comizi. Effettivamente, visto che il voto urbano era andato nel 2016 in maniera prevalente a Clinton e quello rurale a Trump, e non si prevedevano grandi movimenti, era nella grande suburbia delle case unifamiliari, delle infinite distese di villette prefabbricate collegate alle highways, che si allarga per decine di miglia attorno alle metropoli americane, che si poteva decidere il risultato. E così è stato. La suburbia non è diventata democratica, è restata spesso repubblicana in termini generali, ma la quota di voti democratici è cresciuta in maniera decisiva. Lo si vede ad esempio in questa mappa degli spostamenti elettorali 2016-2020 in Georgia.

Georgia. Spostamento dei voti per contea, 2016-2020. Fonte: New York Times

 

Le contee suburbane di Atlanta (tra le più estese d’America) fanno registrare una grande crescita del voto democratico (frecce blu). Le donne suburbane, quindi, non hanno accolto l’invito di Trump ad apprezzarlo e anzi, in questo caso, hanno contribuito a un risultato storico perché la Georgia non votava un presidente Dem dal 1980, dai tempi di Jimmy Carter (che in Georgia c’era nato) – con la sola eccezione del 1992 quando però i voti della destra si divisero su due candidati, George Bush e Ross Perot. Grazie a Kamala Harris, la prima vice-presidente donna della storia, candidata con Biden? Non può essere detto con certezza, forse le donne avrebbero voltato lo stesso le spalle al presidente uscente. Sta di fatto però che in 6 seggi su 8 che i Repubblicani hanno strappato ai Democratici alla Camera, e in 3 su 3 di quelli strappati dai Democratici ai Repubblicani, c’era una donna candidata che ha vinto, e questo potrebbe almeno indicare un certo orientamento delle elettrici, anche di destra, a premiare le candidature femminili.

Lo stesso fenomeno della Georgia si nota in Texas. Grande crescita del voto democratico nella suburbia di Dallas, Austin e San Antonio (frecce blu), bilanciato qui però da un passaggio del voto Latino (frecce rosse, nelle contee di confine con il Messico soprattutto) a favore di Trump. Il voto Latino, che nelle città metropolitane del Nord è stato abbastanza compatto a favore di Biden, in scenari come Texas e Florida ha invece beneficiato Trump, aiutandolo in maniera decisiva a infrangere i sogni democratici di conquista dei due Stati del Sud.

Texas. Spostamento dei voti per contea, 2016-2020. Fonte: New York Times

 

La cosa conferma un errore comune: inquadrare i Latinos come un elettorato di sinistra e come un elettorato uniforme: si tratta in realtà di 60 milioni di persone delle più diverse origini e con processi e percorsi di integrazione dentro la società americana molto diversi. Non solo il gruppo sociale è variegato, ed è probabilmente una forzatura già parlare di “elettorato latino”, non solo c’è una differenza tra le generazioni che incide, non solo c’è il peso politico delle filiere di emigrazione da Messico, Cuba o Venezuela, ma anche solo immaginare che l’immaginario sociale e il comportamento elettorale del proletariato ispanico del Queens o del Bronx, dei cubani di Miami, dei lavoratori sindacalizzati dei casinò del Nevada, delle persone che ormai rappresentano un terzo degli abitanti di Texas o California sia lo stesso, è abbastanza fuorviante.

Se invece vogliamo ribaltare la prospettiva, possiamo dire che il cattolico Biden (è il secondo presidente cattolico della storia americana, dopo John Fitzgerald Kennedy) poteva piacere per questa ragione alla popolazione ispanica più del presbiteriano Trump. L’elettorato cattolico si è spaccato a metà, mentre gli evangelici hanno scelto il presidente uscente: non è una sorpresa, dato che il vice presidente Mike Pence è uno di loro, così come due giudici nominati da Trump alla Corte Suprema. All’inverso, Biden è stato votato tra tre atei su quattro e da due ebrei su tre.

 

Scommesse vinte, scommesse perse

Quindi, seppur meno forte tra i Latinos rispetto a Hillary Clinton anche perché nel 2016 Donald Trump nella campagna elettorale aveva riservato agli ispanici il peggio del suo catalogo retorico (a Miami il caso più clamoroso), Joe Biden ha vinto le due grosse poste in palio della campagna: l’elettorato della Rust Belt e l’elettorato suburbano. E ne ha vinta anche una terza: quella dell’affluenza alle urne, arrivata a livelli mai visti. Voteranno gli americani un vecchio squalo delle istituzioni come Biden, voterà la sinistra sanderista che ha riperso le primarie, basterà la figura di Kamala Harris a coinvolgere le minoranze? Sì, Biden è diventato il presidente più votato di sempre. La differenza su Trump, al termine dello spoglio, mancano ad esempio ancora un quarto di tutti i voti californiani da contare, potrebbe avvicinarsi ai 10 milioni di voti.

Qui va notato uno degli errori della campagna aggressiva e delegittimante del presidente uscente: l’effetto è stato quello di mobilitare gli avversari prima ancora che i sostenitori – inclusi tutti quelli che hanno votato per la prima volta, che lo hanno fatto per Biden 6 volte su 10.

Il fatto che il Partito Repubblicano ottenga dei risultati migliori del candidato presidente, riducendo lo scarto della maggioranza Dem alla Camera e mantenendo in dubbio il risultato al Senato, in realtà rivela come l’onnipresenza ossessivamente strabordante della figura di Donald Trump durante i quattro anni della sua amministrazione e durante la campagna elettorale abbia avuto un peso negativo, sia stata tutto sommato un ingombro più che un vantaggio. Ad esempio, il Maine ha eletto una senatrice repubblicana pur votando Biden come presidente. In Georgia, l’uscente senatore repubblicano David Perdue ha preso più voti del suo rivale democratico Jon Ossof (andranno al ballottaggio), mentre Trump ha preso meno voti di Biden.

I repubblicani hanno strappato seggi Dem alla Camera in vari stati dove Trump ha perso contro Biden, come New Mexico, Minnesota, Michigan. Se il voto presidenziale è stato un referendum su Trump insomma, allora Trump lo ha perso senza appello, e per di più non è affatto comune che gli americani tolgano il potere a un presidente dopo i primi quattro anni di mandato. Se Trump ha pur ottenuto 7-8 milioni di voti in più che nel 2016, Biden, irriso da Trump per tutta la campagna elettorale, ne arriverà a contare oltre 15 milioni in più di Hillary Clinton.

 

Le nuove geografie del voto

Ci sono due dati, tra i tanti, che invece non sorprendono affatto. Il primo: le roccaforti del voto Biden sono tutte urbane. A livello di contea, il candidato Dem supera l’80% dei voti a San Francisco e in molte aree limitrofe, a New Orleans, a Denver, a Philadelphia, a New York (Queens, Bronx e Manhattan), a Washington DC e zona metropolitana che si espande in Maryland e Virginia, a Boston e dintorni, e intorno ad Atlanta. Il seguito dello spoglio potrebbe portare in lista anche Brooklyn, Chicago e Portland. Quelle dove Trump va oltre l’80% sono invece tutte contee rurali, altrettanto sparse sul territorio nazionale, ma specialmente nelle Grandi Pianure e nel Sud.

Ecco perché quando vediamo immagini dei supporter di Trump li si vede arrivare su pick up e SUV imbandierati, partiti da chissà dove, mentre i Dem festeggiavano in mezzo alle grandi avenue delle città. Ma attenzione: non si tratta di una banale contrapposizione tra centri urbani privilegiati (“la sinistra delle ztl”, come si direbbe in Italia) e zone extraurbane di esclusi. I centri urbani negli Stati Uniti sono spesso abitati da una popolazione più povera di quella dei suburbi; il Bronx e il Queens sono diventati una delle roccaforti della sinistra americana, da quando nel 2018 hanno eletto alla Camera Alexandria Ocasio-Cortez, appena riconfermata col 70% nel suo Distretto 14. Nella stessa città, i quartieri residenziali di Long Island restano territorio a maggioranza repubblicana.

Il voto 2020 per zona abitativa. Fonte: Associated Press

 

Da qui si potrebbe iniziare a discutere sulla correttezza del meccanismo del collegio elettorale, non tanto come riequilibratore del peso degli Stati piccoli sugli Stati grandi, quanto sulla dimensione statale come misura per strutturare il voto presidenziale. L’urbanizzazione del voto Dem e la ruralizzazione del voto repubblicano fanno capire quanto la dimensione politica dei singoli Stati abbia perso forza rispetto ad altre dinamiche demografiche, culturali, sociali. Anche negli Stati più blu le zone extraurbane sono molto spesso rosse. Anche negli Stati più rossi le zone urbane sono blu. Non era affatto così fino a poco tempo fa. D’altro canto, per ribadire che la complessità degli Stati Uniti non può ridursi ad alcuna formula semplice, aggiungiamo che Biden è andato piuttosto bene nelle zone rurali del Nord, come in Maine, New Hampshire e Minnesota, mentre ha penato in quelle rurali del Sud e del Mid West, dove il vantaggio di Trump è cresciuto. Grazie a questi voti, Trump ha tenuto bene in Iowa e Ohio, due Stati che aveva strappato ai Dem nel 2016 e che gli sono rimasti fedeli.

 

E pluribus unum?

Il secondo dato è l’estrema polarizzazione del voto. Secondo tutte le inchieste, chi ha votato Trump pensa che con un democratico alla presidenza il paese andrebbe al disastro, e viceversa. L’America di Trump è un posto orribile, dicono i Dem. L’America Dem sarebbe un posto orribile, sostengono i trumpiani. Chi ha votato Biden considera la pandemia e il razzismo i primi problemi da affrontare – e il nuovo presidente lo sa bene, da qui i richiami all’”equità” e alla “scienza” nel suo primo discorso. Chi ha votato Trump risponde con l’economia e la necessità di una leadership “forte”. No, il presidente deve unire, ribattono i Dem.

E’ stato questo il cuore del messaggio di Biden. La sua presidenza dovrà vedersela con un paese ultra-polarizzato, polarizzato da un ventennio almeno – non l’ha inventato Trump – in cui la mappa elettorale, in fin dei conti, cambia infatti molto poco. Il Congresso sarà poco governabile. E non si devono dimenticare le divisioni e le aspettative diverse dentro lo stesso elettorato democratico. Biden punterà tutto sulla capacità di stemperare i contrasti e di trovare accordi e compromessi: del resto è proprio quella che gli ha permesso di sopravvivere per mezzo secolo nella politica americana, e di vincere infine la corsa presidenziale, al terzo tentativo, 48 anni dopo essere stato eletto Senatore per la prima volta.

 

 

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